mercoledì 6 luglio 2011

Convegno missionario dei Carmelitani: Mons. Fisichella su “Nuova evangelizzazione”

Nell’ambito del Convegno missionario dal tema “Sono pieno di zelo per il Signore Dio dell’universo”, organizzato dalla Provincia Italiana dei Padri Carmelitani e tenutosi in Sassone (Roma) dal 22 al 24 giugno u.s., magistrale è stato l’intervento di sua Ecc.za Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, il cui testo mi è stato richiesto da molti e che pertanto riporto integralmente qui di seguito:  
«Il senso di una domanda.
"Cosa dobbiamo fare?" La domanda è presente almeno due volte nel Nuovo Testamento. La prima, nel discorso eucaristico, là dove Gesù dopo aver compiuto la moltiplicazione dei pani rimprovera la folla che era andata a cercarlo non perché avevano colto il segno compiuto, ma perché si erano fermati al pane che avevano mangiato (cfr Gv 6,26). Di fronte alle parole di Gesù: "Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà" (Gv 6,27), la folla chiede, appunto, "cosa dobbiamo fare?". La risposta appare tanto semplice quanto radicale e impegnativa: "Credere in colui che il Padre ha mandato" (Gv 6,29). La seconda volta, la stessa domanda la si ritrova negli Atti degli Apostoli; dopo il discorso di Pietro all'indomani di Pentecoste, molti si "sentirono trafiggere il cuore" e chiesero ai Dodici: "Cosa dobbiamo fare?". La risposta di Pietro era diversa da quella del Maestro solamente nei termini non nel contenuto: "Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei peccati" (At 2,38). Nell'uno come nell'altro caso, alla domanda sul "fare" viene risposto con un richiamo all' "essere"; al primato dell'agire dell'uomo, viene anticipato il primato della grazia che permette di compiere atti altrimenti impossibili.
La stessa domanda, paradossalmente, la rivolgiamo anche noi oggi. Dopo tanti discorsi sull'importanza della nuova evangelizzazione nel mondo contemporaneo, dopo ripetute iniziative che hanno visto impegnate le nostre comunità, sembra che molto di debba ancora fare; anzi, il lavoro cresce avanzando nuove pretese. Vale, dunque, anche per noi la domanda: "Cosa dobbiamo fare?". Essa diventa ancora più impellente nel momento in cui oggetto del nostro discorso sono le giovani generazioni che sembrano vivere una forma di indifferenza nei confronti della fede, e non solo. Cosa dobbiamo fare, dunque? Se la risposta fosse quella di trovare immediatamente delle tecniche o delle iniziative concrete andremmo incontro al fallimento. Non perché non siano importanti, ma perché non possono essere il primo punto della questione. Se desideriamo "fare" qualcosa di efficace è necessario, in primo luogo, avere un'intelligenza del fenomeno. Non è qui il caso di riproporre analisi sociologiche o statistiche che tutti, bene o male, conosciamo. Ciò che dovremmo essere capaci di fare è proporre un progetto carico di senso e preludio per la realizzazione della propria vita. Un progetto, quindi, che possa essere a fondamento di alcune certezze e non sottoposto al dubbio dello scetticismo. Il nostro contemporaneo, dobbiamo confessarlo, è sottoposto malgré lui a una serie di proposte effimere, senza radice, costruite solo su ipotesi che spesso si risolvono in delusioni profonde, dopo un brevissimo istante di fascino passeggero.
Dinanzi a questa permanente domanda, pertanto, la prima reazione che mi viene spontanea è quella di dire: puntiamo gli occhi sull'essere e non sul fare. Il concilio lo ricordava con una buona dose di provocazione quando, riprendendo alla lettera le parole di Paolo VI, scriveva in Gaudium et spes: "L'uomo vale più per quello che «è» che per quello che «ha»" (GS 35). In un contesto culturale come il nostro, che vede indubbiamente un equivoco primato del "fare" e dell' "avere", sarebbe pericoloso per noi pastori cadere in una trappola simile. Se dedicassimo le nostre forze alla moltiplicazione delle attività e delle iniziative, dimenticando cosa le deve sostenere e lo scopo per cui le poniamo in essere, arriveremmo alla fine della nostra giornata con la profonda illusione di non avere prodotto molto. Facciamo ore di catechesi, i locali delle nostre parrocchie sembrano sempre troppo pochi per la molteplicità delle attività… eppure, cosa rimane di tutto questo se poi, alla fine, verifichiamo che le nostre chiese sono sempre più vuote e frequentate da persone anziane? che tra la prima comunione e la cresima il numero dei ragazzi si dimezza? che dopo la cresima riusciamo ad avere un piccolo resto con cui rallegrarci per dire di avere il "gruppo giovani"? che i nostri fedeli, figli del loro tempo, vivono poi le contraddizioni tipiche di questo momento subendo quasi una schizofrenia tra la vita quotidiana e quella di fede?
Alla base del cambiamento
Ciò che mi sembra prioritario, anzitutto, è il recupero della coscienza su ciò che determina i comportamenti delle persone e, di conseguenza, quali strumenti apportare nella nostra pastorale perché l'opera formativa che ci compete possa essere efficace e coerente. E' necessario e urgente, in primo luogo, comprendere che siamo dinanzi a un cambiamento reale di paradigmi di pensiero e di linguaggio che non permettono più di affrontare la vita, il mondo, il rapporto con gli altri, la fede e i grandi valori come nel passato. Questo cambiamento, che ha tutti i tratti per essere considerato epocale, passa inevitabilmente attraverso il linguaggio a cui tutti siamo sottoposti. Anche i concetti più semplici e abituali e i termini a noi più familiari non sono più percepiti né compresi alla stessa stregua del nostro pensarli. In una parola, siamo dinanzi alla verifica di una profonda ignoranza dei contenuti basilari della fede.
Se fosse possibile, nella schematizzazione che sono obbligato a mantenere, direi che il nostro primo obiettivo dovrebbe essere quello di considerare l'importanza del linguaggio. Uso il termine in maniera onnicomprensiva per indicare non solo le nostre parole, ma anche i nostri gesti, le nostre espressioni e, soprattutto, gli stili di vita… insomma, tutto ciò che è posto in essere dal nostro modo di pensare. Evitare questo passaggio non serve e non rende più appetibile la nostra proposta pastorale, come se questo discorso fosse un perditempo a cui devono dedicarsi i teologi. E' necessario entrare nel sistema di pensiero che oggi appare come dominante e verificare non solo da dove proviene, ma soprattutto a cosa tende. Siamo tutti inseriti all'interno di un movimento culturale che trova nel nichilismo di Nietzsche il suo punto di forza. Ciò comporta la perdita di ogni fondamento unitario per l'estremo scetticismo secondo cui non solo non è possibile avere una sola verità, ma neppure raggiungerla. Di fatto, tutto ruota intorno al tema dell'impossibilità per l'uomo di avere una verità; anzi, per quanto riguarda quella che gli viene proposta dalla fede, egli deve fare di tutto per liberarsene pena la sua mancanza di libertà e autonomia.
Agnosticismo e relativismo sono diventati termini comuni nella nostra predicazione e nelle nostre riflessioni; eppure, non riusciamo a comprendere fino in fondo che i nostri fedeli vivono queste realtà in maniera ormai inconscia, come se fossero naturali per loro a tal punto da non comprendere affatto le obiezioni che muoviamo a questo loro modo di pensare e di essere. L'obiezione che ci viene mossa si traduce nell'ovvietà della domanda: "…Ma tanto, cosa c'è di male?". Ci si viene a scontrare con un fatto rilevante per cui, da una parte, noi conduciamo una discussione teorica sul tema della vita, della fede e della verità; mentre, dall'altra, i comportamenti che vengono assunti dipendono inconsciamente da premesse che ne negano ogni valore comune per ridurlo al solo sentimento e giudizio individuale, dove tutto è permesso purché l'altro agisca come vuole senza intaccare la mia libertà personale. E' necessario per questo, che impegniamo le nostre forze perché l'azione pastorale abbia a mirare su temi essenziali e per questo presentati con argomentazioni il più solidamente fondate. Entrano in gioco, a questo punto, due elementi importanti: contenuti brevi con un linguaggio incisivo e comprensibile, Non dovremmo avere timore di ricorrere anche a nuove espressioni semantiche o nuove parabole del vivere quotidiano, purché coerenti con la verità di sempre. Questi elementi, comunque, devono trovarci con una duplice convinzione: la ripetitività dei contenuti nelle diverse sedi del nostro ministero; non è sufficiente fare una bella catechesi e poi non ritornare più sull'argomento. La ripetitività è un punto basilare per incidere sulla memoria, di cui oggi si soffre particolarmente la mancanza. Inoltre, la pazienza che sa attendere il momento più opportuno per verificare la comunicazione dei contenuti e la loro efficacia. Questa, comunque, richiede da parte nostra l'impegno a saper recuperare con forza l'incontro interpersonale e la guida spirituale dei nostri fedeli, vero strumento per la trasmissione viva della fede.
Il grande problema di oggi
"Il punto cruciale della questione sta in questo: se un uomo, imbevuto della civiltà moderna, un europeo, può ancora credere; credere proprio nella divinità del Figlio di Dio Gesù Cristo. In questo infatti sta tutta la fede". Sono le parole cariche di provocazione che provengono da uno degli scrittori più significativi dell’800: Dostoewskij. Chiedersi se l'uomo di oggi è ancora disposto a credere in Gesù come Figlio di Dio comporta un’altra questione: se l'uomo di oggi sente ancora il bisogno della salvezza. Sta tutto qui il problema per noi credenti, per la nostra credibilità nel mondo di oggi; è, comunque, anche il problema per quanti non credono ma desiderano dare un senso alla loro vita. Non trovo altra possibilità al di fuori di questa condizione. Davanti alla possibilità di Gesù Cristo non si può rimanere neutrali; si deve dare una risposta se si vuole trovare un senso alla propria vita.
Uno dei tratti peculiari del cristianesimo è la sua concezione di essere profondamente inserito nella storia. Le parole di Gesù ai suoi discepoli quando ricorda loro di essere nel mondo, ma di non essere del mondo (cfr Gv 15,19; 17,13-14), sono state interpretate come un impegno fondamentale a condividere le vicende della storia, pur sapendo che l'obiettivo ultimo che dà significato pieno agli avvenimenti, va oltre la storia stessa. Con la Lettera Apostolica, Ubicumque et semper, del 21 settembre 2010, il Santo Padre ha istituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Lo scopo appare da subito come una grande sfida. Dovremmo essere capaci di guardare con realismo al presente della Chiesa, per prospettarle un cammino che la impegnerà non poco nel prossimo futuro. D'altronde, viviamo un tempo di gradi sfide, che incidono non poco nei comportamenti di intere generazioni, dovute al fatto della conclusione di un'epoca con l'ingresso in una nuova fase per la storia dell'umanità. A tanti elementi positivi, che consentono di vedere un impegno più coerente nella vita di fede, corrispondono non di rado forme di "distacco dalla fede" come conseguenza di una diffusa forma di indifferenza religiosa, preludio per un ateismo di fatto. Spesso la mancanza di conoscenza dei contenuti basilari della fede porta ad assumere comportamenti e forme di giudizio morale spesso in contrasto con l'essenza stessa della fede, così come è stata sempre annunciata e vissuta nel corso dei venti secoli della nostra storia. Il relativismo, di cui Papa Benedetto ha sempre denunciato i limiti e le contraddizioni in vista di una corretta antropologia, emerge come la nota caratteristica di questi decenni segnati sempre più dalle conseguenze di un secolarismo teso ad allontanare il nostro contemporaneo dalla sua relazione fondamentale con Dio. In questo senso, sono soprattutto le nostre Chiese di antica tradizione che risentono di questa condizione, anche se nel processo di globalizzazione in cui siamo inseriti nessuno sembra sfuggire a questa drammatica situazione che crea un "deserto interiore", perché allontana l'uomo da se stesso. E' questo uno dei motivi per promuovere la nuova evangelizzazione. Essa, è la missione che "sempre e dovunque" la Chiesa ha sentito come suo compito fondamentale per corrispondere al comando del Signore di andare in tutto il mondo e fare suoi discepoli tutti i popoli della terra. Il tema della nuova evangelizzazione è stato oggetto di attenta riflessione da parte del magistero della Chiesa negli ultimi decenni. E' obbligatorio ricordare, anzitutto, il concilio Vaticano II; per alcuni versi, mi sembra di poter dire che il nuovo Pontificio Consiglio risulta essere il frutto maturo del concilio. Non tutti, forse ricorderanno il discorso di apertura di Giovanni XXIII; in quelle parole il papa descriveva le finalità del Vaticano II. Un’espressione permane come punto di riferimento per comprendere a pieno quell’evento: “Occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati… occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione”. Come si nota, il desiderio di Giovanni XXIII era quello di parlare all’uomo di oggi con un linguaggio comprensibile. Un passo ulteriore venne compiuto con la Evangelii nuntiandi di Paolo VI del 1974, a conclusione del Sinodo sull'evangelizzazione. Anche se in quel testo non compare l’espressione “nuova evangelizzazione”, il contenuto non è altro che una ripetuta riflessione sul tema che mantiene la sua profonda attualità fino ai nostri giorni. Per alcuni versi, essa potrebbe ritrovarsi nel famoso testo del Papa: “L’uomo di oggi non ascolta volentieri i maestri, ma i testimoni e se ascolta i maestri è perché sono testimoni”. Per questo motivo sosteneva senza retorica che “Occorre evangelizzare - non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura e le culture dell'uomo, nel senso ricco ed esteso che questi termini hanno nella Costituzione «Gaudium et Spes», partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio” (EN 20). Un passo fondamentale, in questo senso, venne compiuto da Giovanni Paolo II; a lui si deve l’espressione “nuova evangelizzazione” che permane come una costante nei suoi ventisette anni di pontificato. Da ultimo, Benedetto XVI ha voluto raccogliere il testimone compiendo un ulteriore passo concreto con l'istituzione di questo Pontificio Consiglio e stabilendo che il prossimo Sinodo dei Vescovi abbia come suo oggetto: “La nuova evangelizzazione e la trasmissione della fede cristiana”.
La Chiesa è stata voluta da Gesù di Nazareth perché fosse la continuazione viva della sua presenza in mezzo al mondo e non è mai venuta meno in questo compito; è nata con la missione di evangelizzare e nel momento in cui rinunciasse verrebbe meno alla sua stessa natura. Annunciare il Vangelo non ci rende migliori degli altri, ma certamente abilita a essere più responsabili. E' questa una missione che diventa più evidente in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando. Siamo alla fine di un'epoca che, nel bene e nel male, ha segnato la storia di questi ultimi secoli; stiamo per entrare in una nuova era del mondo che ancora appare incerta nei suoi primi passi e sembra vacillare per la debolezza del pensiero. Il ruolo dei cattolici per questo motivo diventa ancora più significativo per la ricchezza di tradizione che abbiamo costruito nel passato. Siamo stati invitati per essere "sale" e "luce"; per dare sapore alla vita e illuminare quanti sono alla ricerca di un senso. Se questa responsabilità venisse meno, il mondo non avrebbe una parola di speranza e noi saremmo destinati ad essere insignificanti.
L'opera di evangelizzazione, quindi, entra direttamente a contatto con le culture, le plasma e trasforma così come ne viene determinata nel suo linguaggio e nella sua espressività. Una cosa è costantemente verificabile nei duemila anni del cristianesimo: l’attenzione permanente che la comunità cristiana ha avuto nei confronti del tempo in cui viveva e del contesto culturale in cui veniva ad inserirsi. La lettura dei testi degli apologeti, dei Padri della Chiesa e dei vari maestri che si sono succeduti nel corso di questi duemila anni mostrerebbe con facilità l’attenzione al mondo circostante e il desiderio di inserirsi in esso per comprenderlo e orientarlo alla verità del Vangelo. Alla base di questa attenzione vi era la convinzione che nessuna forma d’evangelizzazione sarebbe stata efficace se la Parola di Dio non fosse entrata nella vita delle persone, nel loro modo di pensare e di agire per chiamarli alla conversione. Questo è stato in tempi diversi, ciò che oggi chiamiamo "nuova evangelizzazione". Non è differente ai nostri giorni; possiamo usare un'espressione diversa, ma la sostanza permane identica. Siamo chiamati ad annunciare il Vangelo in maniera efficace; questo richiede, in primo luogo, la frequentazione con la Parola di Dio che consente a quanti ascoltano di verificare non solo la nostra conoscenza del Vangelo, ma soprattutto la nostra credibilità che si esprime in una coerente testimonianza di vita. Da questo processo, comunque, non è esclusa l’attenzione a quanto vive e pensa il nostro contemporaneo; in una parola, la "cultura" del nostro tempo. L'obiettivo, quindi, è quello di riflettere e trovare le forme adeguate per rinnovare il nostro annuncio presso tanti battezzati che non hanno più identità e non comprendono più il senso di appartenenza alla comunità cristiana, con la conseguenza di un forte individualismo privo di responsabilità pubblica e sociale. Siamo chiamati, in somma, a rinnovare lo spirito missionario per compiere quel balzo capace di corrispondere alle esigenze che la nuova situazione storica richiede. In questo senso, il compito che ci attende non è diverso da quello che ha segnato sempre la Chiesa: far conoscere il vero volto di Gesù Cristo, unico salvatore, rivelatore dell'amore misericordioso del Padre che va incontro a tutti senza escludere nessuno. La Chiesa, quindi, è chiamata a rinvigorire se stessa in ciò che ha di più essenziale quale l’annuncio missionario. Qualcuno, potrebbe insinuare che decidersi per una nuova evangelizzazione equivale a giudicare l'azione pastorale svolta in precedenza come fallimentare per la negligenza posta o per la scarsa credibilità offerta dai suoi uomini. Anche questa considerazione non è priva di una sua plausibilità, solo che si ferma al fenomeno sociologico preso nella sua frammentarietà, senza considerare che la Chiesa nel mondo presenta tratti di costante santità e di testimonianze credibili che ancora ai nostri giorni sono segnate con il dono della vita. Compiere una nuova evangelizzazione, pertanto, equivale, anzitutto, a prendere sul serio la vita cristiana nell’incontro personale con Gesù di Nazareth attraverso la crescita del senso ecclesiale.
L’Europa
In questo senso, viene a porsi il problema del nostro peculiare contesto “geografico”, l'Europa. Da questa prospettiva, il cammino dell'Europa nel futuro è già segnato. L'unità di queste terre si è realizzata nel passato remoto e ciò che si prospetta per il futuro o sarà in continuità con il percorso di questi 2000 anni oppure sarà destinato al fallimento. La grande sfida è quella di vedere come la nostra generazione sarà capace di trasmettere il patrimonio di civiltà e di fede alle generazioni che verranno dopo di noi. Probabilmente, poche civiltà come la nostra conosce una ricchezza di cultura e di conquista scientifica. Se fossimo ripetitivi del passato, diventeremmo presto noiosi e incapaci di trasmissione che genera cultura; se, invece, saremo capaci di interpretare, secondo lo spirito proprio del nostro tempo, il patrimonio di cultura che abbiamo ricevuto e di cui viviamo, allora la ricchezza si accrescerà e con essa diventeremo significativi per scrivere un'ulteriore pagina di storia. Non vedo alternativa a questa condizione; d'altronde, come ha detto Benedetto XVI, "Il mondo soffre per la mancanza di pensiero". A tutti noi il compito di accettare questa sfida per diventare produttori di pensiero in grado di creare una nuova sintesi feconda per il futuro di questo continente. La storia dell'Europa, dopotutto, non inizia con i trattati di Roma del 1950. La condivisione delle risorse come il carbone e l'acciaio, l'Euratom, il mercato comune, la moneta unica sono solo tappe di un processo che deve guardare oltre gli strumenti per cogliere il senso sotteso e l'obiettivo da raggiungere. Questo dovrebbe essere l'unità riconquistata di popoli che pur nella diversità delle tradizioni e delle proprie storie hanno una matrice comune che è riconducibile al cristianesimo. Questi valori realizzati con fatica, perché composti di una sintesi tra il pensiero greco e romano riletto alla luce della Sacra Scrittura, in questi ultimi secoli si sono ossidati e rischiano di essere sottoposti a un struggente logorio non per il passare degli anni, ma per la corrosione di fenomeni culturali e legislativi che minano il tessuto sociale. Avere spalancato le porte a presunti diritti non ha portato a maggior coesione sociale né tanto meno a un crescente senso di responsabilità. Ciò che è dato verificare, piuttosto, è un preoccupante rinchiudersi in un individualismo che, presto o tardi, porterà all'asfissia dei singoli e della società. I popoli d’Europa, d'altronde, sembrano vivere con una profonda paura; vacillano molte certezze, forse, perché raggiunte con troppa fretta e senza la dovuta perspicacia. La sicurezza del lavoro, l'assistenza nella malattia, la casa, la pensione… insomma, ciò che si conosce con il nome di progresso sociale (welfare) tutto si sbriciola sotto la scure di una crisi che non lascia spazio se non all'incertezza, al dubbio e quindi alla paura e all'angoscia. In che modo si potrà uscire da questo tunnel che non è solo di ordine economico e finanziario, ma primariamente culturale e in modo ancora più specifico antropologico, è facile affermarlo, ma più complesso poterlo realizzare.
Quanto vedo personalmente all'orizzonte, proprio in forza della nuova evangelizzazione, è l'esigenza di creare un modello antropologico capace di compiere la necessaria sintesi tra quanto è frutto della conquista dei secoli precedenti e la sensibilità con la quale interpretiamo il nostro presente. Per alcuni versi, vorrei vedere all'orizzonte un neoumanesimo. Uso intenzionalmente questo termine, perché carico del significato acquistato con ragione nel corso dei secoli. Esso ha determinato una tappa fondamentale per la cultura europea. L'umanesimo, infatti, segnò a suo tempo un autentico entusiasmo che investì tutti gli ambiti dell'attività umana; ciò che costituì la sua fortuna fu appunto la freschezza del movimento che si mise in atto e che coinvolse lo spirito del tempo in modo tale da reinterpretare in modo nuovo le problematiche di sempre. L'Umanesimo fu la capacità di comprendere il cambiamento che si stava realizzando, ma ugualmente espresse la convinzione di poter rileggere e risolvere i problemi che l'umanità possedeva da sempre. Non fu una visione frammentaria del mondo, ma unitaria; così come unitaria era la lettura dell'uomo che era stato posto al centro del creato. In questa fase, che si estese dalla filosofia alla letteratura, dall'arte alla scoperta di nuove terre, Dio non era escluso ma diventava l'orizzonte di senso della ricerca personale e della vita sociale. Un umanesimo in cui la passione per la verità acquisita nel passato diventava vero traino di trasmissione di una cultura fortemente valorizzata, perché segno della conquista del sapere di cui ognuno si sentiva responsabile perché fosse custodito e reinterpretato.
Di nuovo: cosa fare?
Penso a due punti fondamentali: la centralità della famiglia e il sacramento della riconciliazione. Una straordinaria opera realizzata dal concilio fu certamente una pastorale della famiglia. La necessità di porre fine al concubinato, estremamente diffuso e anche presso molti sacerdoti, ebbe come conseguenza un impegno determinante a favore della famiglia. E’ a partire da qui che iniziano a moltiplicarsi le iniziative giuridiche per dare garanzia alla famiglia. Poco a poco questa crebbe e si rafforzò fino a giungere a quel modello valido fino a metà del secolo scorso. Nel periodo profondo di crisi che vive nella nostra società la famiglia, non sarebbe affatto secondario porre di nuovo la sua centralità nella nostra pastorale. La riflessione teologica ha già operato ormai un solido fondamento per la sua identità; ciò che occorre è un’azione pastorale continuata e permanente che possa parlare alla famiglia e della famiglia per recuperare quell’orizzonte di senso che essa possiede. Non sarà inutile sottolineare il carattere di mistero che essa possiede e la centralità dell’amore fecondo su cui si può costruire una catechesi significativa per il nostro tempo sempre più confuso sul senso dell’amore stesso. Da questa prospettiva, vorrei suggerire di non utilizzare mai l’espressione che la Chiesa difende la “famiglia tradizionale”; un simile modo di esprimersi porta l’interlocutore, a lungo andare, a pensare che siamo contro il progresso, perché altri propongono un altro tipo di famiglia più accattivante e la definiscono “moderna”. Non esiste una famiglia “tradizionale” e tanto meno “moderna”, ma semplicemente la “famiglia”, formata da un uomo e una donna; ogni altro tipo di relazione non è famiglia e rientra, eventualmente, in altri ambiti della pastorale.
Un secondo esempio che mi preme sottoporre è il recupero del sacramento della confessione. Il dopo Trento fu certamente un’opera di pastorale sacramentaria, ma quello della confessione gioca un ruolo inaspettato. Nel contesto attuale di abbandono della confessione ciò dovrebbe aiutarci a riflettere. E’ vero, la santa eucaristia è il culmen et fons della vita sacramentale; eppure, esiste una pedagogia che consente di attuare un progresso verso la pienezza dei sacramenti. La confessione, da parte sua, ha un grande valore di recupero per la nuova evangelizzazione; essa, infatti, permette di verificare alcune istanze che sintetizzo. In primo luogo, il recupero della confessione permette di verificare la realtà di se stessi e non l’illusione utopica della nostra vita. Illuso sul fatto di essere ormai autonomo e pienamente libero, l’uomo di oggi ritiene di non avere più bisogno di Dio e, nonostante questo, va alla ricerca quasi spasmodica di esperienze religiose che lo soddisfino; non una sola, purtroppo, la caratteristica di questi anni è la situazione al plurale per cui ingaggia una sfida con se stesso illudendosi ancora di più. Se non le trova, si affida alla superstizione ed è ancora peggio. Nella confessione egli ritrova la verità sulla propria vita e nella direzione spirituale può compiere un discernimento serio per comprendere dove sta andando, se segue l’effimero o l’essenziale. Perché questo avvenga, però, è necessario che il sacerdote recuperi la coscienza del valore di questo ministero. Non si dimentichi, inoltre, che l’abbandono della confessione fa perdere di vista il senso del peccato, e questo come conseguenza della mancanza del senso della comunità. La tendenza al relativismo etico e all’individualismo senza relazione di responsabilità sociale potrebbe essere vinto con il recupero della confessione e con una pastorale tesa a far comprendere il suo valore unito a quello della guida spirituale. Qui, in effetti, si viene a ricreare l’incontro interpersonale e si può far sperimentare la misericordia di Dio. In un periodo in cui, da ultimo, sembra venire sempre meno il senso del perdono per una cultura che grida violenza e vendetta, noi offriremmo un apporto non secondario al progresso della società.
Perché non pensare che la nuova evangelizzazione può essere il fondamento comune e l’obiettivo finale condiviso per restituire a tutti il senso della propria identità e il valore dell’appartenenza? Spesso si nota una noiosa ripetitività delle nostre iniziative solo perché mancano di fondamento. Sembra esserci in molti una “pastorale dello status quo” piuttosto che lasciarsi coinvolgere in una dinamica di crescita che richiede lo sviluppo e il progresso. Penso all’importanza dei sacerdoti nel loro spazio di ministero peculiare e del tempo che dedicano alla preparazione dell’omelia e della catechesi. La formazione non si improvvisa, richiede impegno di studio e fatica nella ricerca. Dovremmo domandarci a 20 anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica (e del Compendio) che cosa ne è stato e quale uso ne viene fatto nelle nostre comunità per la formazione continuata dei nostri cristiani. D’altronde, proprio nel Catechismo noi troviamo una dinamica propositiva che si sviluppa nell’intero arco della storia del dogma e della Chiesa: la professione di fede, la vita sacramentale, la sequela e la preghiera. Penso alle grandi opportunità che vengono offerte con alcune celebrazioni: battesimo e funerale dove possiamo incontrare persone lontane dalla frequentazione della chiesa e comunque in quelle circostanze più facilmente aperte all’ascolto se trovano contenuti che lo meritano e che provocano a riflettere. Penso alla capacità di visitare le famiglie della propria comunità, per far sentire la presenza del sacerdote che si occupa di loro; soprattutto quando in una famiglia ci sono persone ammalate o in ospedale. Il nostro tempo sacerdotale dovrebbe ritrovare in questi momenti la forza dell’incontro interpersonale come garanzia per la trasmissione della fede. Il momento del catecumenato, che ormai investe nelle nostre regioni sempre molti adulti, e la necessaria formazione dei nostri fedeli sempre più ignari dei contenuti basilari della fede dovrebbe trovarci molto vigilanti per proporre cammini di fede permanenti anche se faticosi. Il primo annuncio che viene fatto in molti casi, non può essere confuso con tutta l’opera di evangelizzazione, perché richiede l’attenzione alle differenziate situazioni con cui ci incontriamo.
I laici, inoltre, hanno una loro peculiare presenza nella vita della Chiesa e nella nuova evangelizzazione. Non è qui il caso di ripercorrere i documenti da Apostolicam actuositatem a Christifideles laici per comprendere l’importanza che possiedono nella vita della Chiesa. Mi sembra determinante, comunque, per la pastorale il recupero dei movimenti e delle associazioni. I movimenti che conosciamo, e tanti altri che sono nati in questi anni, hanno una ricchezza innegabile e non sono alternativi alla parrocchia, ma complementari. Nelle grande varietà dei movimenti presenti nella comunità cristiana è bene che ognuno mantenga la propria metodologia di impatto evangelizzatore consapevole, comunque, della complementarità del suo apporto. D’altronde, lo sappiamo, lo Spirito agisce come vuole e soffia dove vuole a noi resta la meraviglia e l’obbedienza. La prima per comprendere la sua presenza sempre nuova; la seconda per seguirlo dove lui vuole condurre la Chiesa. Tornano alla mente le parole quanto mai significative, in questo senso, di uno degli ultimi autori della letteratura romana del III secolo, Novaziano: "Lo Spirito costituisce nella Chiesa i profeti, istruisce i maestri, dispone le lingue, opera i prodigi e le guarigioni, compie azioni meravigliose, concede il discernimento degli spiriti, assegna i posti di comando, suggerisce i consigli, dispone e distribuisce tutti gli altri doni; e così rende perfetta e completa la Chiesa del Signore in ogni luogo e in ogni cosa... Egli rende testimonianza a Cristo negli apostoli, mostra la fede stabile nei martiri, circonda nelle vergini la mirabile castità della carità insigne, negli altri custodisce inalterati e incontaminati i precetti della dottrina del Signore, annienta gli eretici, corregge gli infedeli, smaschera i bugiardi, frena i malvagi, custodisce la Chiesa incorrotta e inviolata nella santità della perpetua verginità e della verità" (La Trinità, 26, 10-26). Come si può notare è una questione di fedeltà all’azione dello Spirito non alla nostra stanchezza nel ripetere sempre le stesse attività. Mi sembra importante, comunque, sottolineare un aspetto che vedo problematico ai nostri giorni; esso si esprime in una forma di clericalizzazione dei laici che sembrano rinchiudersi nelle chiese e nell’azione liturgica dimenticando che la loro specifica azione è proprio l’evangelizzazione da compiere là dove solo loro possono giungere. Il munus sacerdotale, che è importante, non può far dimenticare o oscurare quello profetico e regale che possiede per il laico un ruolo determinante nella società.
Un capitolo importante sarebbe quello della catechesi e della sua relazione con la nuova evangelizzazione. Mi sembra che dovremmo uscire dal tunnel nel quale per decenni si è pensata la catechesi solo in vista dei sacramenti. Se la catechesi vive in funzione dei sacramenti e, oggi, questi si sono ridotti a quelli dell’iniziazione, è ovvio che viene meno la sua stessa funzione che è quella di consentire la maturazione della fede in relazione alle condizioni di vita del credente. Insomma, mi sembra fondamentale il recupero di una forte identità cristiana che si possa coniugare con un altrettanto senso di appartenenza alla comunità. La formazione dovrebbe avere come suo obiettivo proprio un recuperato senso evangelico senza del quale la salvezza non entra nelle nostre case. Una identità che si fa forte, in un momento di debolezza culturale, della sua tradizione viva che si sperimenta nella comunità; ugualmente una comunità forte perché spazio di identità che recupera l’essenziale: lo spirito missionario che non può essere delegato. Per dirla con la Evangelii nuntiandi: “L'importanza evidente del contenuto dell'evangelizzazione non deve nasconderne l'importanza delle vie e dei mezzi. Questo problema del «come evangelizzare» resta sempre attuale perché i modi variano secondo le circostanze di tempo, di luogo, di cultura, e lanciano pertanto una certa sfida alla nostra capacità di scoperta e di adattamento. A noi specialmente, Pastori nella Chiesa, incombe la cura di ricreare con audacia e saggezza, in piena fedeltà al suo contenuto, i modi più adatti e più efficaci per comunicare il messaggio evangelico agli uomini del nostro tempo” (EN 40).
Insomma, per concludere, il mondo di oggi ha bisogno profondo dell’annuncio dell’amore cristiano perché, purtroppo, conosce solo dei grandi fallimenti. Qui, probabilmente, nasce il paradosso che si apre dinanzi ai nostri occhi e che provoca la mente a riflettere sul senso della nuova evangelizzazione. Guardare al futuro con la certezza della speranza vera è ciò che consente di non rimanere rinchiusi né in una sorta di romanticismo che guarda solo al passato né di cadere in un orizzonte di utopia perché ammaliati da ipotesi che non potranno avere riscontro. La fede impegna nell’oggi che viviamo per questo non corrispondervi sarebbe ignoranza e paura; a noi cristiani, tuttavia, questo non è consentito. Rimanere rinchiusi nelle nostre chiese potrebbe darci qualche consolazione ma renderebbe vana la Pentecoste. È il tempo di spalancare le porte e ritornare ad annunciare la risurrezione di Cristo di cui siamo testimoni. Secondo le parole del santo Vescovo Ignazio agli albori del cristianesimo: “Non basta essere chiamati cristiani, bisogna esserlo davvero” (Ai Cristiani di Magnesia, I,1). Se qualcuno vuole riconoscere i cristiani lo deve poter fare per il loro impegno nella fede non per le loro intenzioni.»

(Rino Fisichella, 23 giugno 2011)
Foto: Monica Palermo

1 commento:

Monica Palermo ha detto...

Gentile Mario,
ho apprezzato il fatto che Lei abbia pubblicato una mia fotografia (quella di Fisichella) sul suo blog e la cosa mi lusinga; Le sarò altresì grata se vorrà indicare i crediti (Foto @ Monica Palermo).
La ringrazio
Cordialmente
Monica Palermo