giovedì 4 aprile 2013

Il vescovo di Roma e le conferenze episcopali

E se, contrariamente a quanto stabilito dall’onda mediatica, gli ostacoli più coriacei all’azione del nuovo Pontefice non sorgessero nella curia romana ma nel resto dell’Orbe cattolico? Certo, è sin troppo facile ipotizzare la resistenza della burocrazia vaticana a qualsiasi genere di riforma che ne metta in dubbio la conservazione. Ma quante burocrazie simili si trovano nel resto del mondo ecclesiale? Basta immaginare, anche solo approssimativamente, a quante sono le Conferenze Episcopali nazionali e regionali che da decenni vivono di vita propria o quasi, spesso come se Roma non esistesse.
La burocrazia è sempre una brutta bestia per qualsiasi innovatore. Figuriamoci quando si manifesta in centinaia di esemplari che ormai hanno preso a funzionare al contrario rispetto al compito originario. Pensate e nate come cinghia di trasmissione del governo romano nelle più diverse regioni, le Conferenze Episcopali si sono trasformate in organismi che si permettono di dare i voti a Roma. Anzi, letteralmente, si permettono di mettere ai voti quanto stabilito da Roma. E non si parla di qualche sperduta Conferenza sperduta in qualche regione equatoriale.
Basta pensare alla Conferenza Episcopale Italiana, l’unica ad avere un presidente che non viene eletto dai propri membri, ma nominato direttamente dal Papa. Una sicurezza, verrebbe da dire. Eppure, nel non lontano 2010, la Cei mise ai voti l’Istruzione della Congregazione per il Culto Divino che, su indicazione del Papa, chiedeva che nei messali nazionali venisse sostituita la traduzione «per tutti» con il più corretto «per molti» nella formula di consacrazione del Sangue di Nostro Signore là dove il testo latino recita «pro multis». Risultato: su 187 votanti, solo 11 si espressero a favore di quanto chiesto per conto del Papa.
Al di là del merito, evidentemente gravissimo, in vista di quanto dovrà fare il nuovo Pontefice, non si può tacere il metodo. E se tale metodo viene adottato in Italia per una materia così delicata come la formula di consacrazione delle specie eucaristiche, viene da pensare che cosa può accadere nel resto del mondo per altre questioni, a cominciare da quelle morali. È di poco più di un mese fa la notizia che la Conferenza Episcopale Tedesca, presieduta da monsignor Robert Zoellitsch, ha espresso parere favorevole all’uso della cosiddetta pillola del giorno dopo per le donne che lo richiedano dopo essere state vittime di una violenza.
Ma la resistenza a cui dovrà far fronte un’eventuale azione del nuovo Pontefice non riguarda solo le materie dei singoli casi, quanto l’origine di tale atteggiamento. Ormai le Conferenze Episcopali si sono trasformate in organismi che puntano alla propria sopravvivenza esprimendo a maggioranza una linea dalla quale non è possibile deflettere e usurpando i singoli vescovi di quella autonomia che aveva sempre caratterizzato la loro azione. Sottratto di fatto il rapporto con Roma, un vescovo finisce per adattarsi alla linea decisa in una seduta plenaria o in qualche commissione di cui magari non conosce neppure l’esistenza e il funzionamento. Tutto questo, lungi dall’essere uno strumento che sorregge e rafforza l’azione del Papa, si mostra sempre di più un ostacolo all’effettivo governo della Chiesa.
Il fatto che Francesco I insista sulla sua qualità di vescovo di Roma potrà forse aiutarlo nei rapporti con la Conferenza Episcopale Italiana, di cui deve nominare il presidente. Ma viene da chiedersi se porre l’accento su questo aspetto non lo metta in una difficoltà ancora maggiore rispetto alle altre Conferenze Episcopali. A meno che, in nome e per conto della povertà francescana che pare aver improvvisamente conquistato un consenso unanime dentro e fuori la Chiesa, le Conferenze accettino di auto smantellarsi e risparmiare sul costo dei tanti uffici che mantengono. Ma arriverà a tanto il carisma di Papa Francesco? (


(Fonte: Leandro Mariani, Corrispondenza romana, 23 marzo 2013)

 

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