venerdì 18 settembre 2009

Il massacro fa esplodere i problemi veri

Quanti anni luce dista l’Italia da Kabul? Qui parliamo d’inferno per un nubifragio o una coda in autostrada, di guerra e linciaggio per le beghe politiche o televisive, di killer per un articolo e di gente che salta per aria alludendo a un direttore dimissionario. Poi un giorno abbiamo davanti agli occhi l’inferno vero di Kabul, la guerra dei talebani contro noi occidentali, un kamikaze killer che fa saltare in aria non per modo di dire una decina di nostri soldati. E allora capiamo come quest’Italia viva in una bambagia di ipocrisie, usando metafore improprie e dimenticando la realtà. Crede di essere entrata nell’era della globalizzazione e invece vive un suo universo provinciale, a circuito chiuso, dove tutto finisce a Porta a Porta o in tribunale. Abbiamo perso il respiro della storia e abbiamo abbandonato alla solitudine i parà che sono a Kabul, ma anche i nostri che rischiano la pelle in Somalia o dove diavolo li porta la cruda realtà. Non capiamo più cos’è la storia, cos’è la guerra, cosa sono i soldati e i guerriglieri, non siamo in grado di capire la virulenza dei fanatici e l’uso delle bombe. Per avere una vaga idea di quel che succede, dobbiamo equiparare l’attentato di Kabul o di Nassirya agli incidenti stradali, ai terremoti, alle tragedie come quella di Viareggio. Non siamo più in grado di capire cos’è una guerra e cos’è l’odio. Al più c’è la camorra, c’è la guerra della criminalità; ma le guerre vere non riusciamo più a vederle. Troppo buonismo ci ha abituato a vedere nell’altro, nello straniero che siamo chiamati a difendere, solo il nostro fratello e non il nostro fratricida. Ma il nemico esiste, purtroppo; e ci dichiara guerra ogni giorno.
Da qui la solitudine sconfortante dei nostri soldati. Non sono lasciati soli dal governo o dagli apparati militari; sono dimenticati dalla gente. Esistono solo quando saltano in aria, quando si fanno martiri e diventano estreme star della tv, magari quando non sono più nemmeno volti ma bare avvolte in un tricolore.
Nessuno pretende che l’Italia viva nel clima della guerra o faccia il tifo per le missioni dei nostri soldati nei luoghi caldi del pianeta. Ma è triste rischiare la vita per il proprio Paese, per l’Occidente o per la nostra civiltà, senza che gli interessati se ne accorgano. Un tempo i ragazzi sognavano di diventare eroi cadendo in guerra; per questi guerrieri in tempo di pace non vale nemmeno la consolazione della morte trionfale, il ricordo, la partecipazione. No, il massimo che possono aspirare è l’equiparazione alle vittime della violenza, del terremoto, dei week end. Senza onore né gloria, per dirla con il titolo di un famoso libro.
Quel che più impressiona è che sono coetanei del ragazzo che ti ha sorpassato con la moto da destra, con la ragazza che ha il piercing sulle ciglia e sulla bocca, del giovane che hai visto l’altra notte fumare cannoni di pace o ingoiare pasticche in un pub. Abissi dividono coetanei, gente che vive sotto lo stesso cielo, nello stesso tempo, tra gli stessi contemporanei. Che vedono la stessa tv, navigano su internet gli uni come gli altri, magari hanno i genitori separati... Sì, forse in molti casi c’è la stessa incoscienza o inavvertenza del pericolo, la stessa voglia di vivere di più, di rischiare e di provare la propria immortalità desunta dal vigore degli anni. C’è chi prova l’ebbrezza con una sostanza, con una moto, con l’alcol e chi con la divisa, le armi e la missione patriottica. C’è chi rischia in Afghanistan e chi in borgata o in curva.
Però noi siamo disarmati davanti alla guerra, quella vera, davanti ai kamikaze o presunti tali. Non riusciamo a capire come possa essere possibile e così non siamo attrezzati a reagire, preferiamo rimuovere o derubricare l’attentato al rango di incidente, follìa o calamità. C’è gente che uccide per entrare nella storia; e c’è gente, come noi, che dalla storia è uscito e non capisce chi vuole entrare. Loro fanno più morti e più nascite, noi non uccidiamo e non procreiamo. Loro sperano e per sperare uccidono e si uccidono, noi invece disperiamo ma vogliamo vivere a ogni costo e prolungare la vita con ogni mezzo. Loro hanno dimestichezza con la morte, noi siamo impauriti analfabeti del morire. Loro aspettano paradisi e per i paradisi procurano gli inferni; noi abbiamo smesso di pensarci, e ci fabbrichiamo inferni e paradisi di giornata, uso singolo. E tra noi e loro ci sono di mezzo i nostri soldati, che vivono sull’orlo tra i due mondi, provengono dal nostro mondo e affrontano il loro, e vivono la dolorosa cerniera tra due illusioni, la guerra di liberazione e la liberazione dalla guerra; o se preferite, la vita analgesica di noi occidentali e la vita mortifera dei feroci talebani. Poi accade l’attentato e le reazioni per farla finita sono due: le colombe chiedono il ritiro, i falchi chiedono di sterminare il nemico. Due modi per rimuovere il pericolo e abolire la guerra; e invece dobbiamo abituarci a combattere, ad alternare la prudenza all’audacia, a non disarmare, a convivere con il rischio e con la morte. Perché l’uomo è guerra e pace, vita e morte, riso e pianto. E non è possibile estirpare la notte per vivere un giorno infinito.

(Fonte: Marcello Veneziani, Il Giornale, 18 settembre 2009)

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