Per esempio, nella parabola del ricco “epulone”, ho notato con piacere lo sforzo di tradurre piú letteralmente la frase «ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe» (Lc 16:21), nonostante che tale traduzione renda piú difficile la comprensione del testo rispetto al precedente «perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe». Non ho capito invece perché si sia abbandonata la vecchia traduzione letterale «fu portato dagli angeli nel seno di Abramo» (16:22), per sostituirla con «fu portato dagli angeli accanto ad Abramo». Se il criterio è quello della fedeltà al testo originale, si poteva conservare la vecchia traduzione. Capisco che già precedentemente era stata usata la traduzione piú libera nel versetto successivo (16:23), creando in tal modo una disomogeneità; ma per lo meno in uno dei due passi era stata conservata l’espressione originale, che ora invece è scomparsa del tutto. Il problema è che, con queste traduzioni “a senso” si rischia di non cogliere i riferimenti ad altri passi dove viene usata la medesima espressione: si parla di “seno” infatti anche in Gv 1:18 (il Figlio unigenito che «è nel seno del Padre») e in Gv 13:23 (il discepolo che Gesú amava «era coricato sul seno di Gesú»).
Un’altra tendenza che trovo nella nuova traduzione, e che non condivido, è quella di preferire all’interpretazione tradizionale (solitamente basata sulla versione greca dei LXX), la traduzione dal testo masoretico, quasi che questo si identifichi col testo originale della Bibbia, mentre si tratta di una codificazione avvenuta solo in epoca cristiana (al contrario della LXX, che già esisteva al tempo di Gesú). Due esempi tratti dai salmi.
L’inizio del Sal 64 (65). La precedente traduzione suonava: «A te si deve lode, o Dio, in Sion» (in latino: «Te decet hymnus, Deus, in Sion»). Ora leggiamo: «Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion»). Non nego che si tratti di una traduzione suggestiva, ma che si fonda esclusivamente sulla lettura masoretica della parola ebraica dmyyh. I masoreti (che aggiunsero le vocali al testo ebraico puramente consonantico) lessero dummiyyah (= “silenzio”), mentre i LXX (precedenti — ripeto — rispetto ai masoreti) lessero dommiyyah (= “conviene”, “si addice”). Le antiche versioni latine tradussero il greco prepei con decet. Era proprio il caso di abbandonare una tradizione cosí antica per adottare la incertissima e discutibilissima lettura masoretica?
Un altro esempio tratto dalla liturgia dei Santi Arcangeli: molti testi liturgici attingono al Sal 137 (138): «A te voglio cantare davanti agli angeli» (in latino: «In conspectu angelorum psallam tibi»). Che cosa troviamo nella nuova traduzione? «Non agli dèi, ma a te voglio cantare». Degli angeli non c’è piú traccia. È vero che nel testo ebraico troviamo ’elohim, che significa appunto “dèi”; ma i LXX avevano tradotto quell’espressione con “angeli”. Avranno avuto i loro motivi. Perché, anche in questo caso, si è preferita un’apparente fedeltà al testo ebraico, abbandonando l’interpretazione tradizionale, non solo cristiana, ma degli ebrei stessi?
I traduttori si difendono mettendo avanti l’autorità di San Girolamo. Questi infatti nel primo caso (Sal 64:2) traduce: «Tibi silens laus, Deus, in Sion»; nel secondo (Sal 137:1): «In conspectu deorum cantabo tibi». È vero; ma si dimentica che la Chiesa non ha mai adottato per la sua preghiera il Salterio “iuxta Hebraeos” di San Girolamo, accontentandosi della sua revisione del Salterio “iuxta Septuaginta” (detto anche “Salterio gallicano”). Anzi, direi che tutti i salteri tradotti sul testo ebraico non hanno mai avuto grande fortuna nella Chiesa: basti pensare al salterio commissionato da Pio XII all’Istituto Biblico negli anni Quaranta e che fu utilizzato solo per un breve periodo nella liturgia (nonostante tale traduzione fosse stata condotta sul testo ebraico, nei due casi accennati conservava il testo latino tradizionale).
Anche la Neovolgata, che pure ha corretto in molti punti il testo del “Salterio gallicano” (senza con ciò adottare il Salterio ieronimiano “iuxta Hebraeos”), nei due casi presi in esame è rimasta, essa pure, fedele alla traduzione tradizionale: «Te decet hymnus, Deus, in Sion»; «In conspectu angelorum psallam tibi». Ora, chiedo: ma l’istruzione Liturgiam authenticam (28 marzo 2001) non aveva stabilito che le traduzioni per l’uso liturgico (quale è la nuova versione della CEI), pur condotte sui “testi originali” avrebbero dovuto avere come punto di riferimento la Neovolgata (nn. 34-45)? Come mai è stata concessa alla nuova versione CEI la recognitio, nonostante non sia stato rispettato tale criterio?
(Fonte: Querculanus, Senza peli sulla lingua, 29 settembre 2010)
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