Il
principio è quello della differenza individualistica: siamo singoli individui e
ciascuno, autonomamente, decide per se stesso ciò che ritiene giusto, dato che
non si riconosce alcun tipo di autorità esterna che possa in qualche modo
vincolare la volontà individuale.
Un
principio che ha due corollari: il primo è che esistono tutte le differenze che
esistono; il secondo è che tutte le differenze sono, e debbono essere, uguali.
Come si dice, senza alcuna discriminazione, ovvero equivalenti.Questo modo di pensare ha guadagnato molti consensi in questi anni. A destra come a sinistra. Anche perché costituisce il trait d’union tra la visione libertaria della libertà - basata sul principio antiautoritario - e quella liberale - che si richiama, invece, alla insindacabilità della scelta individuale. Non a caso, su molti temi si osserva una sorprendente trasversalità in tutto l’arco politico.
Applicato alla famiglia, il ragionamento è semplice. Dato che l’evidenza empirica dimostra che esistono tendenze sessuali diverse, allora si deve trarre la conclusione legislativa: per non essere discriminatoria, la legge non può che prendere atto della realtà, equiparando le diverse forme di unione.
Dal punto di vista strettamente logico, appare curioso che chi rivendica una differenza ambisca poi all’omologazione al modello tradizionale. Perché di questo si parla: uguali diritti per matrimoni etero- e omosessuali. Così che, chi chiede il “matrimonio gay”, nel momento in cui vuole affermare una differenza, al tempo stesso la nega: noi diversi, come tutti gli altri!
E invece, credo che, proprio per il rispetto delle differenze, sia giusto chiedere che si continui a riconoscere nello spazio pubblico - perché di questo stiamo parlando - la specificità del matrimonio eterosessuale come unica forma sociale che è in grado di svolgere contemporaneamente una duplice funzione: quella di costruire un sistema complesso, flessibile ma solido, di legami intergenerazionali e quella di stabilire una forma affettivo-sessuale equilibrata, paritaria e stabile. Non per dire che non possono esistere altre forme che regolano questi aspetti, ma per cogliere e affermare la primazia, l’insostituibilità e la non equivalenza di quella straordinaria forma che è la famiglia cosiddetta naturale, basata sulla dualità maschio-femmina e sul paradigma della relazione tra alterità, dell’unione nella differenza.
La smemoratezza dell’Occidente su questo punto è impressionante. Quasi che non riuscisse più a vedere che proprio questa forma sociale originaria ha storicamente costituito una delle architravi su cui la sua stessa storia si è costruita. Perché quella duplicità verticale (intergenerazionale) e orizzontale (stabilità affettivo-sessuale) che definisce l’unicum della famiglia ha permesso di definire una rete di obblighi, riconoscimenti e legami su cui poi si sono sviluppate le forme economiche e politiche occidentali, che non a caso si fondano sulla dignità e il valore della persona che proprio nella famiglia trovano la loro prima elaborazione.
Avvitandosi nella spirale della differenza individualistica, l’Occidente perde il senso tanto del passato quanto quello del futuro. Del passato, perché si pensa di poter liquidare una istituzione come quella famigliare senza pagarne il costo. Quasi che tutto ciò che ci precede, con il carico di saggezza che contiene, possa essere buttato a mare in nome della nostra pretesa di autodeterminazione. E del futuro, dato che uno dei valori chiave della famiglia è riconoscerci dentro una storia che ci ha fatto venire al mondo e che ci chiede a nostra volta di restituire il debito alle generazioni future, mediante l’atto straordinario della genitorialità, che non è mai né individualistico − si è sempre e comunque in due −, né transeunte, per cui si rimane sempre genitori, anche se, per qualunque ragione, capitasse di non volere o non potere esercitare la propria responsabilità.
Eccoci così forse arrivati al nocciolo della questione che spiega tanto accanimento: se presa sul serio, la famiglia svela che non siamo degli io isolati e autodeterminati. La nostra soggettività, così preziosa e irriducibile, si da sempre in rapporto ad altro, ad una realtà che siamo invitati a riconoscere e ad accogliere per poter diventare veramente noi stessi. Ma questa visione delle cose − che la tradizione cattolica difende orgogliosamente − non è certamente quella della differenza individualistica contemporanea, che invece è figlia della onnipotenza tecnica − per cui tutto ciò che si può fare va ritenuto moralmente lecito − e della onnipotenza soggettivistica − per cui ognuno deve realizzare se stesso nella assoluta (o presunta tale) libertà.
Vengono in mente le parole così penetranti dell’ultimo Giorgio Gaber: “La parola io/ questo dolce monosillabo innocente/ è fatale che diventi dilagante/ nella logica del mondo occidentale/ forse è l’ultimo peccato originale”.
(Fonte:
Mauro Magatti, Il Sussidiario.net, 23 luglio 2012)
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