mercoledì 12 settembre 2012

Grazie Bellocchio, alla fine potevi fare anche peggio!

Domanda: Sono soldi sprecati quei 150 mila euro versati dal Film Commission del Friuli Venezia Giulia per “La Bella addormentata”, film ispirato alla triste vicenda di Eluana Englaro in concorso alla 69esima edizione della Mostra del cinema di Venezia? La risposta è prevedibilmente positiva.
Bellocchio ha affermato e riconosciuto: «Non c’è pregiudizio, nè partito preso, certo il mio non è un film imparziale, in arte credo che l’imparzialità non esista, ma è sincero, e per nulla ideologico. Ho le mie idee, ma il film non ne è il manifesto. Credo che osservando bene si capisca la mia posizione». Secondo “Il Corriere della Sera” il film ha ricevuto una “standing ovation”, per “Il Sole24ore“ invece gli applausi «sono stati misurati». Secondo “Il Messaggero” il film «non convince», “Il Foglio” ha parlato di «film ideologico», mentre secondo l‘ironico inviato di “Libero” il regista riesce a far cambiare idea sull’eutanasia perché la «dolce morte» viene invocata dagli spettatori a causa della noiosa lentezza della pellicola.
Il film è pieno di cliché, come spiega Maurizio Caverzan. Quello che passa è che i cattolici e coloro che sono contrari all’eutanasia sono degli isterici esagitati, «quasi a far intendere che per difendere la vita allo stato terminale bisogna avere una fede patologica». Di «soliti cliché», parla anche Lucia Bellaspiga, l’ultima giornalista ad aver visitato Eluana a Udine prima della sua soppressione. Nel film c’è una giovane in stato vegetativo, una bambola di porcellana, la cui madre egoista e cattivisisima la tiene in vita sgranando istericamente il rosario. Nessuna traccia nel film «di ciò che realmente accade nelle migliaia di case in cui davvero si vive con un figlio in tali condizioni, nessuna traccia della fatica quotidiana e del coraggio, della speranza e della fede, nemmeno della povertà e delle battaglie per la vita», commenta la giornalista. Anche per il direttore del Centro studi per la ricerca sul coma “Gli amici di Luca”, Fulvio De Nigris, «manca la normalità di chi ogni giorno vive accanto a una persona nelle condizioni di Eluana Englaro». E’ un buon film, ha spiegato, ma «a senso unico. Fa sentire le famiglie che vivono con un proprio caro in coma e gravemente disabile, minacciate non nella loro libertà di scelta, ma nel loro diritto alle cure. Rappresentare anche queste famiglie è un diritto di verità, specialmente per un anarco-pacifista come si definisce lo stesso Bellocchio».
Un altra falsità: la giovane nel film è attaccata ad una macchina che la tiene in vita, mentre Eluana respirava autonomamente. E’ un classico trucco da Radicali, e non a caso Bellocchio, ex militante di Unione Comunisti Italiani, firmatario del manifesto contro il commissario Luigi Calabresi (definito “torturatore”), dal 2006 è militante nel partito radicale. Prossimamente presenterà il film a Udine alla presenza di Beppino Englaro, di cui ha letto il libro ed è amico.
Un’altra figura controversa è quella di Maria, cattolica e attivista “pro life” che parte per Udine e va a pregare sotto le finestre dietro le quali la donna in stato vegetativo sta morendo. Ma mentre prega si innamora di Roberto, attivista laico sul fronte opposto e corre in albergo con lui. Il primo piano insiste sul crocifisso che porta al collo, ma che si butta dietro le spalle mentre si spoglia. Il messaggio è chiaro: “l’incoerenza dei cattolici”, anche perché dopo aver fatto sesso lei cambia idea e si batte per l’eutanasia. Tuttavia, ha fatto notare Caverzan, la giovane cattolica è il «personaggio più risolto e sorridente del film». Anche il filosofo Adirano Pessina ha notato che «Il mondo cattolico viene presentato in forma monolitica, come cattolicesimo orante e non pensante» e dall’altra parte manca «anche quel turbamento di coscienza che spesso vedo nei non credenti».
Nel film tutti i cattolici appaiono invasati, mentre in quei giorni del 2009 a Udine dominava una grande sobrietà, preghiera e silenzio. Feroci e irreali, continua la recensione di “Avvenire”, appaiono anche i medici e ancora una volta il messaggio è chiaro: “ecco chi deve decidere sulle vostre vite”. In una scena iniziale c’è una drogata che ruba gli spiccioli dalle offerte in Chiesa e i fedeli la scacciano senza pietà. Alla fine è in ospedale, dove rinuncia al suicidio grazie a un medico capace di amarla, il quale poco prima l’aveva “salvata” anche da un incolpevole prete passato a benedirla e offrirle la sua vicinanza. «Non ho fede, ma rispetto e guardo con interesse e curiosità chi invece ce l’ha», ha detto Bellocchio. Pensiamo allora come avrebbe dipinto i cattivi credenti se non avesse avuto rispetto di loro!
Comunque ringraziamo il radicale Bellocchio per essersi trattenuto, alla fine poteva andare anche molto peggio. Basta solo pensare che in un altro film presentato al Festival di Venezia, “Paradise Faith”, una donna ultra-cattolica fa autoerotismo con un crocifisso…


(Fonte: UCCR, 7 settembre 2012)

Note critiche su "L'ultima intervista" del cardinale Martini

È spiacevole accostarsi allo scomparso cardinale Carlo Maria Martini con una disposizione critica. "De mortuis nil nisi bonum". Ma la cosiddetta sua "ultima intervista" me lo chiede in coscienza, per la forte equivocità dei rilievi e dei giudizi sulla Chiesa affidati dal cardinale al padre gesuita Georg Sporschill e a Federica Radice Fossati Confalonieri.
I temi, i lasciti, presenti alla mente di Martini tre settimane prima della morte, così come ci vengono riportati nel testo dell’intervista, sono dunque:
- la stanchezza della Chiesa e l’assenza di ardore e di eroismo;
- l’arretratezza della Chiesa rispetto alla storia, per cui la paura prevale sul coraggio;
- la semplicità del cuore come criterio pastorale, anzi ecclesiale: "Solo l’amore vince la stanchezza".

Queste tracce di spiritualità hanno nel Martini dell’intervista almeno due caratteristiche paradossali:
1) sembrano presumere in chi parla un sofferto isolamento, mentre esse, incluse le aspre note riformistiche e critiche, suonano ripetitivamente da decenni su tante bocche, diversamente qualificate;
2) si avvalgono di argomenti o di richiami teologicamente approssimativi; anche questo non è nuovo e mi è capitato di notarlo più volte su questo sito, tra il 2007 e il 2009.
Valga un esempio dalla risposta centrale, la più estesa. “Né il clero né il diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti”. Bello, forse, per chi si arresti al suono delle parole, ma equivoco, poiché la recezione di una formula del genere, oggi, non può essere che soggettivistica: il dogma (quello trinitario, ad esempio) sarebbe dato per "chiarire" la voce della coscienza individuale in me o nella mia relazione con l’altro! Non mi sorprende che questo registro di religiosità tardoborghese ottenga consenso nello "stanco" Occidente.
Ma torniamo all’inizio dell’intervista. La Chiesa è vecchia e stanca e la grandezza materiale delle chiese, la pesantezza degli apparati, degli abiti, la sfiancano. Abbiamo bisogno di liberarci di tutto questo per essere, almeno, più vicini al prossimo. Se qualcuno ha l’eroicità, la vitalità, di farlo non deve subire vincoli dall’istituzione. Anche questo è un "topos" antico, ricorrente. E, ad un tempo, è misconoscimento di dati religiosi e cattolici essenziali, come sanno bene la dottrina e il discernimento della Chiesa sui carismi e la profezia.
Che cattedrali, paramenti e ordinamenti siano un peso per la vitalità della Chiesa è un pensiero ottocentesco, un po' da socialismo utopistico cristiano, un po' da primato liberale della coscienza, del sentire interno: sensibilità diverse che suppongono entrambe un precedente smarrimento della verità del segno e del sacro.
Al contrario, edifici sacri e splendore liturgico parlano di Dio, con un potere di trascendimento della chiusura soggettiva che nessuna parola consolatoria, nessuna umana "vicinanza" hanno.
Considerare l’apparire, la manifestazione visibile e sacramentale, della Chiesa come in gran parte "cenere" è, allora, un singolare equivoco. L'idea, attinta a Karl Rahner, di “così tanta cenere sopra la brace” è, in sé, una metafora offensiva per gran parte della Chiesa: finisce col far coincidere con la "cenere" tutto, opere e istituzioni, dalla gerarchia al dogma, alla carità, per elevare arbitrariamente a "brace" i soliti protagonisti, i cosiddetti "profeti" e alcuni "martiri" sociali, e i loro ammiratori che, infatti, ora si esaltano alle parole e al lascito del cardinale.
L’idea, poi, delle dodici persone al governo della chiesa, vicine ai poveri e circondate da giovani, “in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque”, sa di utopismo visionario. La letteratura del Novecento europeo (penso al "Maximin" di Stefan George) è ricca di giovani che aprono la storia "nuova" col passo leggero e lo sguardo puro di chi non è gravato di passato. Ma nella vitalità di una tradizione religiosa non è la condizione giovane come tale che conta. Giovanni Battista non è profeta perché giovane.
Il riferimento, nella lunga risposta centrale, ai sacramenti come "aiuto per gli uomini nel momento del cammino e nelle debolezze della vita", fa pensare a una concezione non misterica, non ontologica, dei sacramenti: non a caso il rinnovamento liturgico è fallito, smarrendo subito, nel dopoconcilio, la teologia liturgica dei Casel, degli Jungmann, dei Vagaggini, per un nuovo soggettivismo della "partecipazione" assembleare al rito.
Su un tale sfondo, le notazioni pastorali del cardinale restano orizzontali, pragmatiche, troppo "umane". A questo contribuiscono anche le domande degli autori dell’intervista, dove la Chiesa è assimilata a una organizzazione, da "curare" con "strumenti" pastorali che sono poi principalmente strategie di "esonero" morale e dogmatico.
Lascio per ultima la battuta: "La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni". Nei lontani anni Sessanta – anni che nelle rievocazioni dell’imminente cinquantenario conciliare sarà opportuno trattare con la severità che meritano – simili stereotipi erano il pane quotidiano dell'eloquio "riformatore" e secolarista. Ma oggi non hanno più senso, dopo mezzo secolo di fallimenti di quelle teologie improvvisate e soprattutto dopo mezzo secolo di chiarimenti critici sulla modernità. Il metro evoluzionistico che ci fa misurare avanzamenti o ritardi culturali tra contemporanei non ha consistenza filosofica e la modernità non deve godere di nessun privilegio.
La debolezza di fronte alle obiezioni dei moderni è una sindrome che ha colpito molti nel corso del Concilio. Il cardinale Martini ha parlato spesso del "non credente" che era in lui. Certo: chi non ha vissuto o non vive questa dialettica? Ma altro è scoprire in se stessi ragioni e sofferenze del non credere, altro è "ospitare" in sé esistenzialmente il non credente, dargli uno spazio, lasciargli occupare legittimamente il "foro interno". Qui sta l'equivoco di Martini come di molte generazioni e intelligenze cristiane.
Mi si dice: vanno criticati gli stereotipi, non la santa, amata, persona del cardinale gesuita. Ma non ci si impedisca di vedere che quella santa persona non è stata in grado di evitare a se stesso di proporre alla Chiesa e ai "lontani" proprio quei ripetitivi enunciati che i "lontani" conoscevano a memoria, provenendo da loro.
Lo stesso richiamo a non avere "paura" del nuovo è uno dei più triti, e non coincide davvero con il memorabile "non abbiate paura" di Giovanni Paolo II, anzi, ha il significato opposto.
Equivocare la cura cattolica per principi e verità e vita – cardini del magistero degli ultimi papi – con una "reazione di paura" di fronte al nuovo, è rovesciamento della realtà.
 

(Fonte: Pietro de Marco, www.chiesa, 6 settembre 2012)

 

martedì 4 settembre 2012

La Chiesa: al passo coi tempi o “indietro di 200 anni”?

Mi hanno positivamente colpito i numerosi attestati di stima nei confronti del Card. Martini, giunti da tanti ambienti al di fuori della Chiesa, dagli ebrei ai protestanti, dai laicisti ai non credenti, come pure da parte di ogni ceto della società civile ed ecclesiale. Tutto ciò indubbiamente, in quanto cattolico, non può che farmi piacere; tuttavia - e qui voglio esser franco – mi riesce ancora difficile capire se questo successo oceanico sia dovuto ad una integrale e lineare testimonianza del Vangelo da parte dell’illustre Cardinale, o invece ad un suo eccessivo e indiscriminato attaccamento alla modernità con i suoi valori, ma anche con i suoi pericoli e difetti, o non piuttosto ad un tipo di dialogo irenista più preoccupato di consensi che di esprimere con chiarezza e schiettezza le ardue esigenze del Vangelo, così come ci vengono mediate ed interpretate dal dogma e dalla dottrina della Chiesa, nella loro cristallina e luminosa precisione.
Al riguardo, e ovviamente prescindendo da una gran quantità di esempi che si potrebbero fare, voglio fermarmi soltanto su di una affermazione assai infelice e quanto meno equivoca, rilasciata dal Cardinale in una recente intervista pubblicata giorni fa dal Corriere della Sera.
Richiesto di un giudizio sull’attuale situazione della Chiesa, il Porporato ha affermato che “la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni”. La prima domanda che mi viene in mente davanti ad una dichiarazione del genere è la seguente: rimasta indietro rispetto a che cosa? Viene spontaneo e mi sembra logico rispondere: rimasta indietro rispetto alla modernità, come se nel suo cammino nella storia la Chiesa non fosse luce e guida del mondo, ma quasi dovesse essere il mondo col suo progresso ad essere luce e guida della Chiesa.
Il Corriere della sera, dal canto suo, ha dato notizia del commento che la BBC, la nota agenzia radiofonica inglese, ha dato di questa frase. Il commentatore, tutto gongolante, ha detto di essere rimasto stupito di sentire queste parole da un Cardinale di Santa Romana Chiesa, il quale con tali parole avrebbe portato a modello l’illuminismo, notoriamente affermatosi in Inghilterra nel secolo XVIII e quindi esattamente circa due secoli fa.
Sappiamo bene quanto la modernità sia impregnata di illuminismo, come ce lo ha ricordato più volte Papa Benedetto XVI. Ed è altrettanto noto come tale corrente filosofica (non priva di alcuni valori, che si ritrovano anche nella massoneria fondata a Londra nel 1717) contenga in se stessa un orientamento razionalistico ed antropocentrico, che considera come superstizione e fanatismo quella dimensione misterica e soprannaturale della Chiesa, che è precisamente oggetto della fede cattolica e il clima spirituale nel quale vive la carità cristiana.
Il problema vero della Chiesa di oggi non è che essa sia rimasta indietro, non si sa bene rispetto a quale modernità. Il problema vero è quello di realizzare quella vera modernità, ben distinta dal modernismo, che ci è proposta da una retta interpretazione del Concilio Vaticano II. È questa la vera e sana modernità rispetto alla quale non si deve dire che la Chiesa è rimasta indietro perché è la Chiesa stessa che la propone, e semmai, chi è rimasto indietro è un piccolo settore nella Chiesa, il quale per un malinteso concetto di Tradizione non è capace di assumere il rinnovamento promosso dal Concilio. Quindi non si tratta di superare il Concilio per una “modernità” del tutto equivoca, ma semplicemente di realizzarlo.
Viceversa nelle parole del Card. Martini si ha la netta impressione che nella sua mente ci sia un modello illuministico, secolarista e modernista, che non corrisponda al ritratto che la Chiesa fa di se stessa secondo gli insegnamenti della Tradizione, della Scrittura, del Concilio e dello stesso Magistero perenne della Chiesa.
Allora, quale “Chiesa” sarebbe rimasta indietro? Se la vera Chiesa è quella che ci viene dall’illuminismo, come lascia intendere il Cardinale Martini, non c’è altra alternativa a questa Chiesa se non pensare alla Chiesa che ci è presentata dal Magistero stesso della Chiesa, il quale nella persona del Papa, ci presenta ancor oggi una Chiesa veramente moderna in opposizione all’illuminismo.
Semmai la Chiesa arretrata è quella dell’illuminismo, e quindi quella del Cardinale Martini, intendendo per illuminismo quella forma mentis che è ristretta alla pura verità empirica e non è capace di elevarsi o di allargarsi, come dice il Papa, sì da accogliere la superiore verità della Parola di Dio. È questo modello illuministico di Chiesa che appare come arretrato e quindi superato dalla Chiesa, che va oltre l’illuminismo per abbracciare la trascendenza del Vangelo.

(MaLa, tratto da: P. Giovanni Cavalcoli, “La chiesa avanza o resta indietro?, Riscossa Cristiana, 3 settembre 2012)

 

lunedì 3 settembre 2012

Il card. Martini: l'ipocrisia di chi lo osanna perché faceva il “laico in tonaca”

“Il papa dei non credenti”. Così è stato celebrato il Cardinal Martini dai giornali, dai telegiornali e dagli intellettuali. Salutandolo come capofila del cattolicesimo progressista, sono stati elencati i suoi principali meriti: istituì la cattedra dei non credenti, preferì rivolgersi ai pensanti piuttosto che ai credenti, si distinse dalla Chiesa aprendo all'eutanasia, al preservativo, alle coppie gay, agli atei, rifiutò la messa in latino e sostenne la necessità di «superare le tradizioni religiose». Un curriculum notevole per un intellettuale, con i suoi dubbi e le sue aperture; ma per un sacerdote, per un cardinale, per un uomo della Chiesa, può dirsi altrettanto? Certo, il Cardinal Martini non fu solo questo, fu anche un biblista insigne, una figura carismatica, si ritirò a Gerusalemme; ma la ragione per cui è stato osannato dai media è questa e l'ha ben riassunta un intervistato: «Non ragionava come un uomo della Chiesa, non sembrava un Cardinale».
Ma è davvero un elogio non sembrare quel che si è, mimetizzare la propria missione, confondersi con il proprio tempo e tingersi dei suoi colori? E allora torno a domandare: ma è questo che chiediamo a un pastore, a un uomo di fede e di chiesa, di parlare come tutti gli altri, di assecondare lo spirito del tempo anziché invocare il tempo dello spirito? Non ci bastano e ci avanzano le tante cattedre di ateismo, di laicismo e di progressismo che ci sono in giro per chiedere che anche dentro la religione vi siano spazi e argomenti in favore dei non credenti e delle loro tesi? Siamo bombardati dai precetti laici della modernità miscredente e dai canoni del progresso; non avremmo piuttosto bisogno di qualcuno che ci rappresenti l'amore per il sacro, per la trascendenza e per la tradizione? E chi dovrebbe farlo se non un uomo della Chiesa, un Arcivescovo, un Sacerdote? É demolita ovunque l'Autorità e l'autorevolezza delle istituzioni, anche se poi al loro posto ci sono nuovi canoni obbligati, nuovi poteri dominanti a volte più dispotici e intolleranti degli altri: non si chiede oggi a chi rappresenta la religione di assumersi sulle spalle la croce di contravvenire a questi nuovi dispotismi nel nome perenne della Tradizione e della fede in Dio? Un conto è dialogare con i «gentili», come fa anche Ratzinger, un altro è sposare il loro punto di vista o scendere sul loro stesso terreno, fino a omologarsi, e rappresentare soltanto la versione religiosa all'interno dell'ateismo dominante. Non si tratta di barricarsi nella Chiesa degli anatemi e dell'integralismo e di ignorare il mondo e il nichilismo che avanza; si tratta di affrontare il mondo a viso aperto, testimoniando la passione di verità e non la priorità del dubbio, testimoniando l'amore per l'eterno e non solo per il proprio tempo. Una scelta spirituale che si incarna, e non una scelta intellettuale, o peggio ideologica, che si storicizza. Giunge a proposito la questione sollevata da Papa Ratzinger su Giuda. Secondo Benedetto XVI, Giuda tradì Gesù perché voleva spingere Cristo non a fondare una nuovo religione, ma un movimento politico ribelle contro l'impero romano. La lettura di Ratzinger lancia un forte messaggio al nostro tempo: chi riduce Gesù a un rivoluzionario e il cristianesimo a messaggio di redenzione politica e di riscatto sociale, tradisce Cristo come Giuda. Il ribelle zelota Giuda nega il valore religioso del cristianesimo e lo riduce a rivolta politica, attaccando l'impero romano ma non intaccando la religione ebraica. Viceversa, Cristo secondo Ratzinger non è avversario di Roma e non è un rivoluzionario, ma fonda una nuova religione, e dunque dissente dal sinedrio, che lo condanna al patibolo. Su la Repubblica Gustavo Zagrebelsky ha scritto un dotto excursus tra le interpretazioni di Giuda per sposare alla fine la tesi di don Primo Mazzolari di un Cristo ribelle, distruttore, liberatore e nemico del potere. Un Gesù giacobino, da popolo viola, «uno come noi», scrive il professore giustizialista. Uno come noi, è anche la parola d'ordine per elogiare il cardinal Martini dal punto di vista dei non credenti. Il Cristo di Mazzolari-Zagrebelsky è una versione opposta a quella di Ratzinger. E si sposa assai bene con l'elogio progressista di Martini. Peccato che il giurista non citi tra le interpretazioni di Giuda come esecutore del disegno divino quella di Giuseppe Berto (ripresa da scrittori cattolici come Mario Pomilio e Francesco Grisi): Giuda tradendo provoca la morte e la resurrezione di Cristo. Come in una vera eterogenesi dei fini - espressione del cattolico Augusto del Noce che però piace a Zagrebelskj - il tradimento di Giuda ha un movente politico ma produce un risultato escatologico: non provoca la ribellione degli zeloti ma la salvezza del mondo tramite il sacrificio di Cristo sulla Croce. Perché la promessa cristiana è la resurrezione, non la rivoluzione; è l'eternità, non il progresso.
Post scriptum. A proposito di Crocifisso, avrete letto la profanazione di Ulrich Seidl alla Mostra del Cinema di Venezia [vedi il mio post precedente]. Una trovata miserabile non solo perché offende i credenti e coloro che, pur non credenti, sono nati e cresciuti in una civiltà cristiana. Ma per due altre ragioni: la sua profanazione non ha nemmeno l'alibi di sfidare coraggiosamente un regime teocratico, ma infierisce contro una fede debole, soccombente, e su questo piano, inoffensiva. E poi non ha nemmeno il crisma dell'originalità, perché arriva dopo decenni di profanazioni spettacolari, dai film di Pasolini, che però erano almeno tormentati vangeli, alle esibizioni di Madonna, Lady Gaga e dei Soliti Idioti. Quel film rientra nello squallido conformismo della profanazione contro una fede inerme, come Colui che fu inchiodato sulla croce.

(Fonte: Marcello Veneziani, Il Giornale.it, 3 settembre 2012)

 

venerdì 31 agosto 2012

“Paradise: Faith”. Ci sono applausi e applausi

Dicono che denunciare le idiozie e le offese alla religione cristiana sia come un boomerang, faccia il gioco della pubblicità, e favorisca la diffusione di ciò che offende la fede. Sarà, anzi, spesso è vero. Ma non possiamo dimenticare che, rifacendoci al «caso Castellucci» di qualche mese fa, le proteste, quando hanno fornito ragioni reali, hanno ottenuto qualche risultato. Mi risulta che il regista abbia modificato alcune scene, proprio tenendo conto delle motivate reazioni di chi ha osato andare contro la corrente del pensiero relativista, per cui non esisterebbe alcuna distinzione fra il buon gusto e il cattivo gusto, ma solo fra il gusto di qualcuno e il proprio, ragione per cui tutto può (e deve) essere considerato “arte”.
Per quanto riguarda il film presentato a Venezia, in cui la protagonista si masturba con un crocifisso, non c’è altro da dire se non che i giornalisti della Prima che - come riportato da Repubblica e dalle cronache sui giornali - si sono profusi in applausi, mostrano un grado di intelligenza e di senso critico assai limitato. E mi spiego. Ho visto solo il Trailer del film in questione; sono le scene (a parte l’ultima, schifosa, della masturbazione) già raccontate dai giornali. Non si può essere che in malafede per definire la protagonista «una supercattolica devota»! Ma lorsignori sanno che cos’è il Cristianesimo? Che cosa insegna il catechismo? Hanno mai parlato con qualcuno che vive seriamente la propria vita di fede?
Per dirla con gli antichi cristiani, io sono ateo delle loro divinità! Quella che ho imparato è una fede seria e capace di testimonianza, non la distorsione grottesca che ne fanno “i saggi” della postmodernità: blasfemia spacciata per “arte”.
E che dire degli applausi a Venezia? Quelli che si sono scandalizzati degli applausi dei partecipanti al Meeting di Rimini tributati a Monti, non si sono poi vergognati dei loro? Altro che piaggeria! Disgustoso servilismo, vigliaccheria travestita da superiorità intellettuale. Ora capisco perché Scalfari dice che per lui fa poca differenza l’ostrica, la formica e l’uomo: con quel cervello da vongola, con quella viltà da don Abbondio, che cosa possiamo aspettarci da gente così?
Ho sempre apprezzato Solženicijn, quando in Vivere senza menzogna chiedeva ai suoi amici, se non avevano il coraggio di opporsi, almeno quello di non alzare la mano per approvare ciò che andava contro la loro coscienza. E ho amato il grande Vaclav Havel, che, nel suo Il potere dei senza potere, diceva che la verità era il solo modo di sconfiggere l’autoritarismo totalitario. Il totalitarismo, oggi, è anche nel pensiero unico di cui ha parlato Herbert Marcuse, nel suo L’uomo a una dimensione.
Suvvia, un sussulto di dignità! Senso critico e libertà di pensiero non farebbero male ai proni giornalisti che hanno avuto l’onore di assistere al film. Occorre recuperare la dignità e il coraggio perduti! Interrogano, infatti, i fragorosi applausi dei giornalisti alla Prima del film-provocazione, mentre assistiamo al loro silenzio omertoso quando una bambina pakistana, affetta da sindrome di Down, accusata ingiustamente di blasfemia per avere strappato pagine con citazioni del Corano (che non erano state buttate via da lei, sia ben chiaro, ma forse proprio dai suoi crudeli e stolti accusatori) viene prima minacciata di essere arsa viva e poi imprigionata in attesa di condanna. Coraggio, amici (anche se, lo sappiamo, «il coraggio nessuno se lo può dare», come ricorda saggiamente il vostro maestro). Forse si potrebbe ancora risorgere. Il bello, e non il kitsch dissacrante - anche se politically correct - , ci è dato per risorgere!

(Fonte: Gabriele Mangiarotti, Cultura cattolica, 31 agosto 2012)

 

lunedì 27 agosto 2012

“Spudorati!”

Eliminare le Province italiane? Macché ne vogliono sempre di nuove. E perché? Perché sono veri e propri centri di spese, spesso di spese folli. A questo viene dedicato un capitolo di "Spudorati" (152 pagine, 18 euro, Mondadori) di Mario Giordano, 45 anni, direttore di Mediaset all-news TgCom24 (foto). Ecco alcuni stralci del nuovo libro nelle librerie:
«Avanti c’è posto: è dal 1970, cioè da quando sono state create le Regioni, che si dice che le Province non hanno più senso. Eppure non c’è paesello, rione, quartiere che non sogni di diventare capoluogo... Vi chiederete come mai. E la risposta è semplice: non è vero che le Province non servono a niente. Macché: le Province servono un sacco. A che cosa? Semplice: a finanziare la sagra del salmone del Medio Campidano, per esempio. O il censimento per lo studio delle abitudini del cormorano dell’Iglesias. Vorrete mica perdere di vista il cormorano dell’Iglesias, perdinci. E allora perché vi stupite? La Provincia di Oristano (meno di 300.000 abitanti) è riuscita a finanziare in un solo anno: la sagra della fragola (8942,42 euro), la sagra dei pesci (2257,67 euro), la sagra dei muggini (1474,20 euro), la sagra de sos cannisones (983,55 euro), la sagra de sos culurzones de patata (903,05 euro), la sagra del riso (1493,87 euro), la sagra degli agrumi (1867,34 euro), la sagra del pomodoro (5465,73 euro), la sagra dei ravioli (1806,09 euro), la sagra del pane e dei prodotti tipici (2709,14 euro), la sagra su pai fattu in domu (1354,57 euro), la sagra del carciofo (1331,58 euro), la sagra de su bino nou (903,05 euro) e la sagra pane e olio in frantoio (1422,30 euro). Ho l’impressione che alla fine abbiano mangiato un po’ tutti...
Il fatto è che di dimagrire nessuno ha voglia. La Provincia di Napoli, per dire, negli ultimi dodici mesi ha sostenuto con oltre 3 milioni di euro una miriade di fondamentali iniziative come «La cucina di mammà», «Cogli l’attimo», «C’è di più per te» e «Sognando di diventare campioni tirando la fune». Il tiro alla fune, ecco, ci mancava.
La Provincia di Roma pensa alle lepri e ai fagiani: spende 298.392 euro per distribuirne una certa quantità nei boschi. La Provincia di Trento finanzia ogni tipo di convegno: 110.000 euro per quello sul clima, 790.000 per quello sull’economia, 100.000 per quello sulle «rotte del mondo», addirittura 180.000 per «educare nell’incertezza» (fra l’altro, di questi, 82.000 se ne vanno in comunicazione, cartellonistica, vitto e soprattutto buffet, che in mezzo a tanta incertezza restano l’unica cosa sicura). Inoltre, sempre la Provincia di Trento ha affidato anche una consulenza da 20.000 euro a due professori universitari per «capire gli orsi», mentre quella di Belluno paga dieci volte tanto un consulente per sapere se le Dolomiti possono entrare nel patrimonio dell’Unesco.
E la Provincia di Bolzano batte tutti: è riuscita ad assoldare un consulente per fare lezione ai troppi consulenti che aveva assoldato. «Come migliorare le proprie prestazioni», era il titolo esatto del seminario. Ecco: come migliorare le proprie prestazioni. E magari farsi pagare qualche euro in più sognando la cucina di mammà o il tiro alla fune. E dimenticando, però, che a forza di tirare la fune, si rischia di spezzarla. Ma chi ci pensa ai pericoli? Ma chi ci pensa ai costi? Ma chi ci pensa agli sprechi? Ecco perché, nonostante le promesse elettorali, le Province sopravvivono sempre. Ecco perché, quando si arriva al dunque, nessuno vota per l’abolizione. Perché le Province sono utili. Prendete quella di Monza e della Brianza. La neonata organizzazione territoriale brianzola ha appena visto la luce in una terra che, come tutti sanno, è celebre per la febbrile attività e l’indomito dinamismo.Ebbene, che cosa ha prodotto in sei mesi, dal gennaio al giugno 2011, il consiglio provinciale della produttiva Brianza? Una delibera. Proprio così: una di numero. Accidenti, non sarà mica calata l’ernia a qualcuno dentro quel palazzo? Una delibera tutta intera? Tutta insieme? L’avranno approvata in un colpo solo oppure a rate per non affaticarsi troppo? Fra l’altro trattasi di una decisione operativa di importanza fondamentale, dati i tempi di crisi e le necessità del Paese: il premio Talamoni, cioè una medaglietta d’oro (4 centimetri) da assegnare a non si sa bene chi. Valeva la pena costituire una nuova Provincia per avere un riconoscimento così prestigioso, no?
Pare che in Brianza si fatichi a trovare uno stemma, un simbolo, un segno distintivo per rappresentare il nuovo ente locale. Che, in compenso, ha ben quattro sedi (proprio quattro) e quattro aziende dell’acqua (proprio quattro) che costano, secondo quanto riferisce l’Espresso, 1,5 milioni di euro l’anno. Le spese per la comunicazione istituzionale ammontano a 880.000 euro, quelle per le consulenze a 1 milione di euro. E non mancano nemmeno le solite regalie a pioggia per foraggiare ogni tipo di manifestazione, da «Pagine come rose» a «Le immagini della fantasia», da «Libritudine» a «Teodolinda messaggera di pace»...Finanziamenti in libertà anche a Palermo: qualsiasi sagra, dal ficodindia all’asino di Castelbuono, e qualsiasi associazione, dal Badminton di Cinisi alla Confederazione siciliani del Nordamerica, sembra in grado di ricevere generose donazioni di soldi dei contribuenti. All’altro capo dell’Italia, in compenso, c’è la Provincia di Treviso che spende 22.800 euro per organizzare un sondaggio sulla soddisfazione dei pescatori e altri 21.600 per studiare le anguille. In effetti, però, lo studio delle anguille può presentare anche alcuni lati assai interessanti: considerato il modo in cui vengono gestiti i soldi dei contribuenti, almeno si impara a essere sfuggenti...
Ecco a che cosa servono le Province. Costano 14 miliardi di euro l’anno, ci prosciugano, non funzionano, ma svolgono due compiti fondamentali: mantengono un esercito di 4520 amministratori e distribuiscono denari a pioggia, dall’associazione della salsiccia agli amici del peperone.
Che poi, oltre che essere amici del peperone, evidentemente, sono pure amici dell’assessore. O almeno di sua moglie. Altrimenti come spiegare certe spese?».

(Fonte: Mario Giordano, Il Giornale, 13 marzo 2012)

domenica 19 agosto 2012

"Ma le Pussy Riot non sono eroine"

Una voce fuori dal coro, dopo la condanna delle Pussy Riot, è quella del sociologo torinese Massimo Introvigne, coordinatore dell'Osservatorio della Libertà Religiosa costituito dal Ministero degli Esteri. "Certamente - osserva il sociologo - le voci che protestano contro condizioni di detenzione troppo dure e una pena troppo severa meritano di essere ascoltate, tenuto conto della situazione personale delle giovani imputate".
"Tuttavia - prosegue Introvigne - non si può, come alcuni fanno, andare oltre ed esaltare il gesto per cui le Pussy Riots sono state condannate. Ho l'impressione che non tutti conoscano esattamente i fatti. Le Pussy Riot hanno cantato una canzone dove non si limitano ad affermazioni politiche ma chiamano il patriarca ortodosso 'puttana', e il cui ritornello fa il verso alla liturgia ortodossa ripetendo 'La merda, la merda, la merda del Signore'. E non l'hanno cantata in un loro locale, e neppure in una piazza, ma nella cattedrale di Mosca, uno dei luoghi più santi dell'ortodossia russa".
"Come sempre - afferma Introvigne - trovare l'equilibrio fra la libertà di espressione e il diritto delle confessioni religiose a non essere offese, specie nei loro luoghi di culto, è delicato. Ma non è giusto aggredire la Chiesa Ortodossa russa quando presenta, non senza buone ragioni, la presunta performance 'artistica' delle Pussy Riot come una violazione dei diritti dei cristiani all'integrità dei loro luoghi di culto, che non possono indiscriminatamente diventare teatro di proteste politiche, anche giustificate, nel corso delle quali si offende la sensibilità della comunità cristiana".
"Che alcuni sostenitori delle Pussy Riot siano talora animati da cristianofobia - conclude Introvigne - è confermato dal gesto delle 'contestatrici in topless' Femen, che nella piazza principale di Kiev hanno abbattuto con una motosega quella che non è, come è stato scritto, una semplice croce, ma un crocifisso con l'immagine di Gesù Cristo, che è stato gettato nella polvere urlando slogan anti-religiosi".

(Fonte: Vatican Insider, 17 agosto 2012)

sabato 18 agosto 2012

Caro Messori, questa volta hai perso una stupenda occasione per tacere

Se mi capita di parlare di omosessualità è solo perché questo è uno degli argomenti che più ossessivamente ricorrono sui mezzi di informazione, né ho usato a caso la parola “ossessivamente”. Nella sconfortante palude dei conformisti ormai si è generata una reazione a catena: se non si parla di omosessualità, se non se ne parla in termini elogiativi, o quantomeno non negativi, non si è “à la page” e soprattutto si rischia di essere esclusi dai giri “importanti”. Ad esempio, nel campo dell’informazione, facciamo un nome a caso, si potrebbe essere esclusi da un Corriere della Sera, il quotidiano per tutte le bandiere e tutte le stagioni, purché siano quelle in cui si sta a galla facendo le fusa per il potente vero o presunto di turno.
Inoltre, come già dissi tante volte, le persone normali e civili non usano parlare della propria vita sessuale, perché questa fa parte di quegli argomenti privatissimi, sui quali la civiltà aveva steso il velo della discrezione, a giusta tutela della riservatezza. Del resto, poiché non viviamo più nella civiltà, ma in uno strano magma animalesco, in fondo non c’è nulla di strano se gli argomenti incentrati su inguine, perineo e dintorni siano sempre di attualità.
Questa volta è il turno di Vittorio Messori che il 13 agosto pubblica sul Corriere (un giornale a caso…) un articolo sconcertante, [che potrete leggere per intero cliccando qui]. Messori in fondo è da capire: ha la fama di scrittore “cattolico” e sono certo che mi precederà di mille miglia in Paradiso. Però scrive anche sul Corriere e per mantenere una posizione sul quotidiano più importante in Italia, sempre in gara con Repubblica per il premio al miglior conformismo, deve pagare il suo scotto. Ergo cattolico sì, ma sia ben chiaro, cattolico aperto, mai dogmatico, sempre pronto alle capriole. Potenza della greppia.
Veniamo all’articolo. Messori parte ricordando che qualche tempo fa si scoprì, orrore orrore, che un Manuale di istruzione per la Polizia, in uso dagli anni ’50, trattando di omosessualità, parlava di «ambienti ambigui», «giri torbidi», «passioni oscure», «amori inconfessabili». Insomma, in anni in cui ancora si ragionava, quel Manuale spiegava ai futuri poliziotti quello che tutte le persone di buon senso da sempre sanno. Naturalmente Messori si associa subito (prima rata del pagamento dello scotto) a chi dice che il Manuale, ormai superato, trattava il problema dell’omosessualità in una “prospettiva da tempo improponibile”. Perché sia improponibile, lo scrittore cattolico non ce lo spiega. Del resto, quando si canta il peana per l’omosessualità non si spiega mai nulla; si parte da un atto di fede cieca e assoluta: l’omosessualità è una cosa normale, normalissima.
Comunque il nostro non è certo uno sprovveduto e la seconda rata dello scotto la paga con un colpo da maestro: fu lui, nel 1971, a Torino, giovane praticante giornalista, a proporre per primo al suo caporedattore di fare un’intervista all’allor giovane Angelo Pezzana, storico leader degli invertiti, firmatario di un manifesto del F.U.O.R.I. (Fronte Unitario Omosessuali Rivoluzionari Italiani). Infatti, come ci racconta lo stesso Messori, avendo visto per caso quel manifesto restò colpito: “Quel manifesto era davvero storico: per la prima volta - ma proprio la prima, almeno in Italia, e giusto a Torino - usciva allo scoperto, rivendicando non solo il diritto a manifestarsi ma, tout court, ai diritti umani, un mondo da sempre esistente eppure sconosciuto, celato, indicato solo con termini di offesa o di condanna”.
Rimessosi dalla caduta da cavallo sulla via di Damasco, il giovane praticante giornalista corse dal suo caporedattore, per chiedergli di poter intervistare il suddetto omosessuale rivoluzionario (perché voleva fare la rivoluzione? Mah!) e scoprì così che sia il capo sia i colleghi non avevano la minima intenzione di dare spazio in cronaca ai “cupi” (parola torinese con cui si indicano gli invertiti). Non solo: fu deriso e sospettato pure di essere anche lui omosessuale.
Ergo, dice Messori con orgoglio, merito una medaglia: fui io tra i primi a voler parlare di omosessuali e dei loro terribili problemi, mentre i colleghi che oggi si sdegnano per le gravi frasi rinvenute sul Manuale della Polizia, allora erano “omofobi”.
Ormai Vittorio Messori è lanciatissimo, vuole pagare la terza rata dello scotto e qui avviene il deragliamento da neurodeliri. Dopo aver deprecato “il silenzio e l' indifferenza anche da parte cattolica”, si chiede pensoso (riporto testualmente): “Eppure, per il credente dovrebbe esserci qui un motivo di profonda riflessione: se l' omosessualità, in ogni tempo e in ogni luogo, marca e marcherà sempre una percentuale (che sembra fissa), dell' umanità, può forse trattarsi di un «errore» del Creatore? Che sono, questi nostri fratelli in umanità? Sono forse «scarti di lavorazione»? Perché Dio e la sua Provvidenza non siano offesi, occorre riconoscere che anche questo fa parte, enigmaticamente, del piano da Lui voluto e da Lui attuato. La teologia, qui, ha ancora molta strada da fare”. La Congregazione per la Fede è avvisata: la teologia deve fare molta strada!
Ora, a parte il fatto che i discorsi sulla “percentuale fissa” di omosessuali sono privi di ogni riscontro, un ragionamento (si fa per dire) di questo tipo è sconcertante perché postula che ogni azione dell’uomo, ogni situazione, ogni avvenimento, per il solo fatto che esiste sia giustificabile in quanto che, se esiste, fa parte, seppur “enigmaticamente” del piano di Dio. Chi dice il contrario, addirittura offende Dio e la Provvidenza, perché immagina un “errore di Dio”.
Lasciamo perdere l’enorme confusione tra peccato e peccatore: condanna assoluta per il primo, carità per il secondo , sono concetti che a Messori sfuggono. Lasciamo perdere il fatto che qui si dimentica del tutto che l’uomo ha il libero arbitrio, che gli permette di scegliere tra la sua salvezza (vivendo la fede cattolica e osservandone i precetti) o la sua condanna (col peccato). Possiamo anche lasciar perdere il fatto che Messori dimentica, o vuole dimenticare, che il peccato impuro contro natura “grida vendetta al cospetto di Dio” (ma lo ha studiato il Catechismo?).
Possiamo lasciar perdere tante cose, ma non possiamo non rimarcare che la bestialità è enorme, perché se si segue il filo di una tale impostazione, si conclude che nessuno è colpevole di ciò che fa, perché tutto rientra in questo stravagante concetto di “piano di Dio”, una predestinazione, evidentemente, per cui il rapinatore fa parte del piano di Dio, l’assassino pure, e via discorrendo.
Vittorio Messori va così a braccetto con quei presunti scienziati che ogni tanto scoprono che esistono nei cromosomi umani i più diversi geni che spiegano le attitudini e le azioni dell’uomo. Ovviamente ne consegue che nessuno è responsabile di ciò che fa, perché non poteva fare altro.
A questo punto però il nostro scrittore cattolico ci dovrebbe spiegare perché mai sia stato necessario il sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo per redimere l’umanità, dal momento che ogni azione umana “fa parte, enigmaticamente, del piano da Lui voluto e da Lui attuato”. In questo modo non esiste più il concetto di peccato, e quindi diventa inutile la redenzione. E’ possibile dire che Gesù Cristo è venuto sulla Terra senza scopo? E la Chiesa Cattolica allora, che ci sta a fare?
Forse sarà stata colpa del caldo opprimente, che può causare deliri, o forse sarà stata l’ansia, come dicevamo, di mostrarsi conforme ai canoni che sono richiesti al giorno d’oggi per stare a galla. Sia quel che sia, il Messori, che da anni annorum si atteggia ad archetipo dello “scrittore cattolico”, ha un dovere morale preciso: spiegarci per chi stia lavorando.
 
(Fonte: Paolo Deotto, Riscossa cristiana, 16 agosto 2012)
 

Tre libri per capire questo Papa “semplice”, “umile” e “lavoratore”

Ottantacinque ben portati. Nel senso di ben vissuti e ancora ben vivibili, per sua stessa ammissione. Con raffinata autoironia, Benedetto XVI, nel suo discorso al Bundestag di Berlino, nel settembre 2011, aveva fatto cenno al fatto che alla sua età il cervello è ancora in grado di funzionare bene: «Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di ottantaquattro anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Mi consola il fatto che, evidentemente, a ottantaquattro anni si sia ancora in grado di pensare qualcosa di ragionevole)». Con apparente nonchalance, il 28 marzo scorso, durante il colloquio con Fidel Castro, aveva lasciato cadere una considerazione sulla sua età e sulle energie che lo animano, sgonfiando così il gossip sulle sue imminenti dimissioni: «È vero, sono anziano, ma posso fare ancora il mio dovere al servizio della Chiesa».
Il 16 aprile 2012 Joseph Ratzinger ha compiuto ottantacinque anni, il 19 aprile 2012 Benedetto XVI ha iniziato il suo ottavo anno di pontificato. Le sue prime parole da pontefice, nel 2005 furono: «Cari fratelli e sorelle, dopo il grande Papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti». In occasione degli ottantacinque anni di questo «semplice e umile lavoratore», diventato il Papa più longevo dall’inizio del Novecento, sono usciti tre libri: uno in omaggio alla sua “semplicità”, uno alla sua “umiltà”, il terzo contiene una testimonianza diretta del suo “lavoro”. I tre autori non si sono messi d’accordo, ma quando è naturale l’accordo suona meglio.
Il libro sul “lavoratore” è curato dall’uomo che è fisicamente più vicino al “Papa al lavoro”, il suo segretario personale monsignor Georg Gänswein. È uscito in Germania, ne sono autori venti tedeschi famosi, nella politica, nella cultura, nell’economia e nello sport, cattolici e non, invitati a dire la loro sul connazionale che tutti li supera in fama e importanza. Benedikt XVI. Prominente über den Papst (Benedetto XVI. Personaggi famosi sul Papa) raccoglie i loro interventi, c’è anche quello di Franz Beckenbauer, monsignor Gänswein ne ha curato l’edizione, scritto l’introduzione e, soprattutto, il suo personale ritratto di Papa Ratzinger.
Don Georg – così ancora lo chiamano nonostante il titolo di monsignore, il dottorato in teologia e la docenza in diritto canonico – ne parla come di un «modesto dono di compleanno» e ci tiene a «sottolineare espressamente che quest’opera non è un lavoro compiacente commissionato “dall’alto”. Gli autori non hanno ricevuto nessuna indicazione, tutti hanno avuto piena libertà di dire la loro». L’unica indicazione – scrive nell’introduzione – riflette una richiesta pubblica che il Papa ha fatto già per un suo libro, il Gesù di Nazaret, «quell’anticipo di simpatia, senza il quale non c’è alcuna comprensione». «Il Papa delle parole» che riflette e fa riflettere, il «Papa teologo più che uomo dei grandi gesti» che ha a cuore «il rapporto tra fede e ragione, tra religione e rinuncia alla violenza», ha, secondo don Georg, un unico programma: «Riaffermare con forza e chiarezza il nocciolo delle fede cattolica: l’amore di Dio per l’uomo che trova nella morte in croce di Gesù e nella sua resurrezione l’espressione insuperabile». Su questa semplicità ultima, posta al centro della politica ecclesiale di Benedetto XVI, si sofferma l’autore del secondo libro, il cardinale svizzero Kurt Koch, già vescovo di Basilea e presidente della Conferenza episcopale del suo paese, e ora del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e della Commissione per le relazioni religiose con gli ebrei. Come altri cardinali legati a Benedetto XVI, anche Koch è allievo di Hans Urs von Balthasar, il gigante della teologia del Novecento, di cui Ratzinger fu studioso e amico. Ne Il mistero del granello di senape (Lindau), Koch introduce alla conoscenza del pensiero teologico di Joseph Ratzinger a partire da una sua affermazione: «Il semplice è il vero ed il vero è semplice». Per Benedetto XVI, ha detto il cardinale presentando il suo libro lo scorso 16 aprile al Centro internazionale di Comunione e Liberazione, «la teologia cristiana proprio oggi deve tornare alle basi elementari della fede. Teologia e annuncio non possono avere nessun altro obiettivo se non quello di condurre continuamente proprio a questa elementarità». Per spiegare come la teologia sia un pensiero «che viene dopo» (il pensatore fa precedere il pensiero alla parola, per il teologo è il contrario, la parola precede il pensiero), Koch fa parlare ancora Ratzinger: «La teologia presuppone un nuovo inizio nel pensiero, che non è il prodotto della nostra riflessione, ma che proviene dall’incontro con una Parola che sempre ci precede». Questo perché la teologia antepone a se stessa l’autorità, l’evento della rivelazione, la vita della fede. È sempre Ratzinger a spiegare che «una Chiesa senza teologia s’impoverisce e diventa cieca; ma una teologia senza Chiesa si dissolve nel possibilismo». Per Koch, quindi, non è la teologia il criterio dell’annuncio, ma l’annuncio il criterio della teologia, perché «il bene principale di cui è responsabile la Chiesa è la fede delle persone semplici», ammonisce citando ancora il Papa, e i teologi farebbero bene a ricordarlo.
In questa logica, e con qualche sorpresa per chi è fermo all’immagine del “Panzer Kardinal”, la teologia di Benedetto XVI riserva un posto preminente e particolare ai santi e all’arte: strettamente imparentati tra loro nella profondità della fede, sono i due argomenti a cui potrebbe limitarsi «l’unica vera apologia del cristianesimo».
Il terzo libro segnala la virtù fondamentale della teologia e della personalità del Papa. Benedetta umiltà (anch’esso pubblicato da Lindau) di Andrea Monda non è l’opera di un teologo, ma di un laureato in Giurisprudenza che ha lasciato il posto da funzionario di banca per studiare alla Gregoriana e insegnare religione in un liceo classico di Roma. A questa passione unisce quella di scrivere saggi, brevi per i giornali e più corposi per le librerie. Monda ha avuto la fortuna di incontrare personalmente Benedetto XVI quando era ancora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e di discutere con lui di letteratura inglese, in specie di Lewis e Chesterton, scoprendo come il futuro papa li conoscesse meglio di lui che se ne considera uno specialista. «Il cardinale Ratzinger – ricorda Monda – condusse il dialogo con l’umiltà di chi non vuole mettere a disagio il suo interlocutore né apparire a lui superiore».
Nel suo libro Monda scava nei gesti e nelle parole del Papa alla ricerca di questa virtù misteriosa e indicibile, ché appena dici di averla la perdi, e ne evidenzia la parentela con l’umorismo, dote anche questa insospettabile, celata, ma non aliena a Benedetto XVI. Dopo aver fatto notare al lettore che umiltà, umorismo e umanità hanno radice etimologica nel latino “humus” (terra), Monda osa parlare della “leggerezza” del Papa. Se lo può permettere perché autorizzato, in qualche modo dal Papa stesso, il quale, intervistato da una televisione tedesca, alla domanda su quale ruolo abbiano nella vita di un pontefice «lo humor e la leggerezza dell’essere», rispose: «Io non sono uno a cui vengano in mente continuamente barzellette. (…) Saper vedere anche l’aspetto divertente della vita e la sua dimensione gioiosa e non prendere tutto così tragicamente, questo lo considero molto importante e direi che è anche necessario per il mio ministero. Un qualche scrittore aveva detto che gli angeli possono volare perché non si prendono troppo sul serio. E noi forse potremmo anche volare un po’ di più se non ci dessimo tanta importanza». Il “qualche scrittore” era Gilbert Keith Chesterton, che diceva: «Gli angeli possono volare perché portano se stessi leggermente», e aggiungeva: «Satana è caduto per la forza di gravità». Il Berlicche che Tempi ospita settimanalmente ne sa qualcosa.
 

(Fonte: Ubaldo Casotto, Tempi, 17 agosto 2012)


giovedì 9 agosto 2012

La vita capovolta: dove arriveremo?

L’anziano protagonista dello spot pubblicitario di una nota azienda produttrice di chewingum, apparso l’anno scorso sugli schermi televisivi e replicato di recente, si sbottona la camicia e dice, mostrando il reggiseno: «Figliolo, c’è una cosa che devo dirti. Io non sono tuo padre. Sono tua madre». «E io sono una marionetta…», risponde il figlio. La scenetta pur demenziale, fortemente diseducativa e generatrice di confusione psicologica soprattutto per i bambini che la guardano ci fornisce la chiave di lettura di quel che siamo diventati: dei burattini nelle mani di questa cultura irriverente verso la dignità umana che va sotto il nome di relativismo.
Una cultura che incide profondamente sull’antropologia umana, che viene sostenuta, alimentata, diffusa, proprio da quelle Istituzioni, come il Parlamento europeo, che si sono prodigate negli ultimi anni per spacciarla come foriera di civiltà. Quello spot pubblicitario, registra proprio questo: il degrado culturale che viviamo, diviene realtà. Un documento di Thomas Hammarberg, Commissario del Consiglio d’Europa per i Diritti Umani, intitolato I Diritti Umani e l’identità di genere, accolto come una pietra miliare durante una conferenza internazionale sui diritti umani che si è tenuta a Copenhagen nel luglio del 2009 che ha costituito la base teorica delle linee guida della Transgender Europe (la rete europea di organizzazioni a tutela dei diritti dei transessuali) – oltre ad esaltare i diritti dei transessuali, prevede che lo psicoterapeuta che segue nel suo percorso il transessuale, gli prospetti la possibilità di far prelevare e congelare le proprie cellule germinali (spermatozoi e ovuli) al fine di una futura nascita.
Per la prima volta in Italia, un Comitato etico – quello del Policlinico di Bari – si pronuncerà a breve sul caso di una donna che si è rivolta alla struttura pubblica, chiedendo di diventare uomo, aggiungendo la richiesta di far congelare le sue cellule (ovociti e un pezzo di ovaie) per il futuro, per non precludersi la possibilità di avere figli. Intanto, il ginecologo che ha in cura la donna che vuole diventare uomo e contemporaneamente vuole preservare il suo diritto alla maternità, dichiara di sperare che il Comitato etico, al quale ha sottoposto la questione, lo autorizzi.
Nel frattempo, afferma: «Tenendo ben presenti i paletti legati alla legge 40 che vieta la fecondazione eterologa, eliminando le questioni etiche e religiose, trovo che sia una cosa giustissima: se ammettiamo il transessualismo, dobbiamo dare loro la possibilità di riprodursi». Conservando i gameti, per poi trasferirli in un Paese dov’è consentita la fecondazione eterologa.
Le questioni etiche e religiose – così le chiama il ginecologo – vengono messe da parte. Il medico non se lo pone neanche il problema. Sono inutili. Il corpo perde la sua identità originaria, in base ad una scelta definita di libertà, ma deve conservare un diritto, quello alla maternità ed alla riproduzione, che di per sé si traduce solo in puro egoismo. La vita, così, si trasforma in una successione di atti puramente materialistici, che eliminano qualsiasi vincolo naturale e qualsiasi riferimento all’anima, alla dimensione spirituale.
Come se l’uomo e la donna, fossero stati messi al mondo non per generare con amore, ma come bestie. Trasformo la mia identità, mi conservo gli ovuli e li affido a chi li può trattare. La nascita dei figli non appartiene a nessuno, né tantomeno ad un disegno soprannaturale. Appartiene solo ad un mio diritto, alla mia identità precedente e a quella attuale. Non importa se loro, da piccoli, mi chiederanno perché sono contemporaneamente la loro mamma e il loro papà. La risposta già me la sono costruita: è quella del Parlamento europeo, dello psicoterapeuta che mi ha visitato, del ginecologo e del comitato etico, che di sicuro comprenderà.


(Fonte: Danilo Quinto, Corrispondenza Romana, 8 agosto 2012)
 

Emergenza prostituzione in Italia

Il fenomeno della prostituzione in Italia negli ultimi anni è aumentato notevolmente, in considerazione anche dei flussi migratori. Da 25mila prostitute di qualche anno fa siamo passati a 70mila, di cui 26mila straniere e il 20% minorenni. In prevalenza arrivano dalla Nigeria, dall’Albania, dalla Romania, dall’ex Jugoslavia, dal Sud America, dal Nord Africa e dai Paesi dell’Est. Tali donne esercitano la loro attività liberamente o in maniera coatta (ridotte in schiavitù) sulle strade, nelle zone appartate, negli appartamenti e nei locali in cambio di denaro. Le donne che si prostituiscono in maniera coatta sono soprattutto quelle albanesi, gestite da un racket feroce e barbaro, e poi le ragazze dell’Est che vengono in Italia con l’inganno: i loro connazionali promettono loro un lavoro, ma spesso si ritrovano sulla strada, e se si rifiutano sono botte e stupri di gruppo, fino a quando diventano più docili.
Poi abbiamo le cosiddette accompagnatrici, che lavorano in casa, o le massaggiatrici, che mettono annunci su riviste e quotidiani, e infine quelle che lavorano nei night. Le prestazioni sessuali cambiano a seconda del prezzo. Si parte da 30/50 euro e si va fino a 500 euro per una notte, e anche più. E’ il denaro naturalmente che regola i rapporti sessuali, il vizio e il piacere venereo.
Non sappiamo nulla sulle precauzioni sanitarie, perché molte donne pur di fare soldi sono disposte a fare a meno del profilattico. Neanche l’Aids ha fermato il fenomeno prostituivo…
Ci sono poi problemi di ordine pubblico: sono i travestiti brasiliani e peruviani e i transessuali che danno scandalo nelle nostre strade, con vestiti succinti e grandi schiamazzi per catturare clienti, incuranti dei bambini e delle mamme che assistono a questi spettacoli indecorosi.
I clienti sono 9 milioni di italiani, di cui 500mila donne, che assicurano un business di 90 milioni di euro mensili alla malavita (fatturato da 2,2 a 5,6 miliardi l’anno) e, in parte, alle prostitute. Le quali vengono da Paesi poverissimi, dove c’è una miseria spaventosa, e svolgono questa attività pericolosa per qualche anno fino ad mettere da parte quanto serve per acquistare una casa o dei titoli e per avere una sicurezza economica. Ma non tengono conto né dei rischi né dei pericoli della professione, e spesso sono costrette a prostituirsi contro la loro volontà.
Vediamo cosa scrive la Caritas a tale riguardo: “Le modalità di arrivo in Italia e di conseguenza di esercizio della prostituzione sono diverse a seconda delle etnie. Le ragazze nigeriane sono reclutate al Paese di origine con la proposta di un lavoro in Italia; spesso sanno che è legato alla prostituzione, ma certamente non conoscono né le modalità con le quali lo eserciteranno, né le condizioni di vita alle quali saranno sottoposte. Al momento della partenza sono eseguiti riti woodoo per soggiogare meglio le ragazze. All'arrivo in Italia vengono "affidate" o "vendute" a "maman", spesso donne nigeriane ex-prostitute, che sistemano le ragazze in alloggi, decidono il luogo di lavoro e ritirano i guadagni. Potranno essere nuovamente libere ed eventualmente riavere i passaporti solo dopo aver pagato un debito che oscilla tra i 70 e i 100 milioni di lire. Inoltre devono pagare l'affitto, il vestiario, il cibo e anche il "joint" (il pezzo di strada su cui la ragazza lavora). In Albania le ragazze spesso vengono adescate da un "presunto" fidanzato, che promette lavoro in Italia e successivo matrimonio; altre volte vengono rapite o vendute da membri della stessa famiglia di origine. Sulla strada vengono solitamente sottoposte a stretta sorveglianza da parte del protettore al quale devono consegnare tutto il guadagno. Nel caso in cui non "rendano" a sufficienza vengano punite con metodi estremamente violenti e spesso vendute ad altri clan. Le ragazze non dispongono quasi mai dei propri documenti di identità e nel caso li abbiano sono falsi. La rete criminale albanese è molto violenta e vendicativa; le ragazze, quando riescono a scappare con l'aiuto di polizia, clienti o unità di strada, hanno molta paura ad affrontare l'iter della denuncia, anche per le reali possibilità di violenza e ritorsione sulla famiglia in Albania ed in particolare sulle sorelle minori.
Un'altra forma di reclutamento, utilizzata soprattutto con le donne provenienti dai Paesi dell'Est Europa e della ex URSS si concretizza sia tramite annunci sui giornali con promesse di lavoro come ballerine, cameriere sia tramite contatti diretti con connazionali che organizzano la prima parte del viaggio. Per arrivare in Italia attraversano diversi stati e sono vendute/acquistate una /due o più volte soprattutto a Belgrado ed in Albania. Le donne entrano in Italia con visti turistici ma più frequentemente clandestinamente e una volta arrivate a destinazione vengono espropriate del loro passaporto.
E' necessario aggiungere che le ragazze trafficate in Italia sono sempre più giovani ed è in aumento il numero delle minorenni”.
Infine ci sono tutta una serie di problemi morali. Non tutte le donne povere ricorrono ad esporre il proprio corpo e a venderlo, perché hanno dei principi che discendono dalla legge morale naturale o dalla legge di Dio, che intima: “Non commettere atti impuri”. E difatti le donne filippine (per fare un esempio) non vanno sulla strada, perché hanno un’altra morale e un’altra formazione religiosa. Come risolvere il problema della prostituzione, che c’era già nella Roma di Vespasiano, Adriano e Diocleziano? All’epoca c’era qualcosa come 32mila prostitute, che si vendevano per l’equivalente di pochi euro di oggi nei lupanari dei bassifondi, dove le stanze erano piccole e più simili a celle che a un’alcova di piacere; sui muri, dipinti o scritte erotiche solleticavano gli appetiti dei clienti e servivano come catalogo delle varie prestazioni.
Ci sono varie proposte giacenti in Parlamento che eviterebbero lo spettacolo osceno e indecoroso di transessuali, travestiti e prostitute, che offende la morale, il decoro e la loro stessa dignità. Queste leggi tutelerebbero anche donne e uomini dalle malattie. Discutiamo quindi tali proposte e non lasciamole in un cassetto...


(Fonte: alberto giannino, La perfetta letizia.com, 8 agosto 2012)

venerdì 3 agosto 2012

Le cantonate libertarie di Umberto Veronesi

C’è uno scienziato in Italia che di tanto in tanto prende delle cantonate grandi quanto una casa, le diffonde senza porsi tanti problemi e si fa portavoce di quella cultura anti-umana che sembra avere il sopravvento rispetto alla concezione stessa dell’uomo, quella conosciuta da millenni.
L’ultima “uscita” di questo scienziato è relativa al tema della droga. Egli sostiene (“La Repubblica” dell’8 luglio scorso) che «La droga è la materializzazione del rifiuto dei ragazzi di una società violenta e ingiusta. Questa è la prima causa su cui agire, se vogliamo combatterla». Come combattere la droga? Liberalizzandola. L’uso della droga sarebbe conseguenza di una rivolta nei confronti di una società malata. Così, coloro che ne fanno uso vengono assolti. Non commettono nulla di male. Anzi. Danno un segnale a tutti. Fanno comprendere quanto sia necessario agire sulla violenza e le ingiustizie, causa del loro perdersi nei paradisi artificiali che si costruiscono, nei loro mondi che non corrispondono alla realtà delle loro vite. Quelle così disprezzabili dei loro padri e delle loro madri, ad esempio, che lavorano dalla mattina alla sera, per mantenerli agli studi, e per farli crescere, ai quali oltre a sottrarre il denaro per comprare la “roba”, rubano anche la speranza di una vita serena, per inseguire il loro piacere e la loro pseudo-felicità.
Questo il ragionamento “moderno” di Umberto Veronesi, l’illustre scienziato di cui dicevamo all’inizio. Lo scienziato si è prodigato negli scorsi anni anche su un altro tipo di liberalizzazione, quella che riguarda il diritto di darsi la morte con l’eutanasia. «È diritto dell’uomo chiedere la morte, se è stato colpito da una malattia inguaribile e irreversibile? La risposta non può essere che affermativa, perché la vita è un diritto, e non un dovere», ha affermato. Ed ha aggiunto: «Scegliere la morte per evitare sofferenze intollerabili fa parte dei diritti inalienabili della persona e non si può affermare che la vita è un bene ‘non disponibile, da parte dell’individuo senza negare il concetto stesso di libertà, sottoponendolo a categorie morali che non possono che essere collettive, e che quindi, di fatto, cancellano l’individuo e negano la sua libera autodeterminazione». Così, il principio di autodeterminazione, che corrisponde ad elevare gli istinti e i desideri a verità assolute, spazza via ogni cosa.
Ma è sulla sessualità che Veronesi ha dato il meglio di sé. Intervistato qualche anno fa dal “Riformista”, lo scienziato libertario, già Ministro della Salute, stimato da tutti senatore eletto dal Partito Democratico e presidente dell’Agenzia per la sicurezza nucleare voluta dal governo Berlusconi – spiegò il futuro bisessuale dell’umanità. «La specie umana disse Veronesi si va evolvendo verso un “modello unico”, le differenze tra uomo e donna si attenuano (l’uomo, non dovendo più lottare come una volta per la sopravvivenza, produce meno ormoni androgeni, la donna, anche lei messa di fronte a nuovi ruoli, meno estrogeni) e gli organi della riproduzione si atrofizzano. Questo, unito al fatto che, tra fecondazione artificiale e clonazione, il sesso non è più l’unica via per procreare, finirà col privare del tutto l’atto sessuale del suo fine riproduttivo. Il sesso resterà, ma solo come gesto d’affetto, dunque non sarà più così importante se sceglieremo di praticarlo con un partner del nostro stesso sesso».
Le sue insulse teorie, porteranno certamente Veronesi – prima o poi – alla proposta per il premio Nobel. C’è una genìa di personaggi incensati dalla cultura materialista dominante, prodiga nell’elargire tributi e onori a simili mistificatori della realtà, che per giunta si ammantano della loro autorevolezza referenziale nella pretesa d’insegnare il bene e il male. Di questo tipo di maestri, non si sente, a dire il vero, alcun bisogno.

(Fonte: Danilo Quinto, Corrispondenza Romana, 1 agosto 2012)
 

Pessimo esempio dei vip che si vantano di essere omosessuali

Sarebbe opportuno che l’agenzia di informazioni ANSA cambiasse nome e si chiamasse ANSAGAY, perché quasi ogni giorno riporta una o più notizie sfacciatamente a favore dell’ ideologia omosessualista. Dichiarare di essere gay sta diventando una realtà positiva e “normale” perché “di moda”. Affermare invece che l’omosessualità è un vizio, un peccato o una malattia significa passare per omofobi medioevali e tutto il mondo che si sente civilizzato ti fa guerra senza scampo perché i diritti dei gay sono sacrosanti!!! Mentre una volta ci si vergognava a manifestare pubblicamente la propria omosessualità oggi al contrario dichiararsi gay ha un impatto mediatico forte, fa “parlare” di sé, porta fama, successo, se non a un vero e proprio record di incassi, come nel caso di star del calibro di Ricky Martin o Lady Gaga, che – il primo confessando tutto in un libro, la seconda giocando sull’ambiguità del “sono – non sono” – hanno visto raddoppiare fans e quattrini proprio “grazie” alla loro omosessualità più o meno vantata ed esibita come se fosse qualcosa di cui andare fieri.
Eppure, lontano da telecamere, lustrini e palcoscenici, nelle pieghe del mondo adolescenziale il rischio di questa pubblicizzazione dell’essere gay che in realtà diventa una evidente propaganda omosessualista è palpabile: “se va di moda, lo voglio”, ripetono i ragazzini immaturi davanti alla tv e alle vetrine dei negozi, da cui – il passo può essere breve per chi è più suggestionabile – “se va di moda essere gay, forse potrei esserlo anche io”. Ma l’omosessualità può essere anche una moda? Può esserlo diventata? Basta farsi un giro in Rete per scoprire che sulla maggior parte dei forum la domanda recentemente è stata posta, e ha creato un dibattito acceso tra gli internauti. Oggi si sente parlare di “mondo gay”, di eventi e locali “dedicati” (nelle grandi città anche molto esclusivi), addirittura di premiazione di miss gay o lesbica… di un abbigliamento preciso, per lo più sguaiato e sciatto, imitato persino da chi omosessuale non è. Senza contare una presenza mediale ormai pervasiva: E’ evidente come nelle fiction, nel cinema e persino nei talk- show gli omosessuali abbiano ormai un ruolo da protagonisti di primo piano. Non è esagerato parlare di vera e propria dittatura gay.
“Gay è bello”, ripetono così reality show e programmi di moda, dotando di un’aura sofisticata protagonisti spesso eccentrici e ridicoli e spesso professionalmente mediocri. Con un obbiettivo che spesso sfugge ai più : quello dell’audience e degli ascolti. Dal punto di vista sociologico quella omosessuale è infatti una comunità molto compatta e combattiva contro quelli che non condividono il loro stile morale esistenziale, in particolare contro il Cattolicesimo, con consumi, stili di vita e modelli culturali omogenei. Ecco perché creare un prodotto destinato a questa potente comunità gay (potente anche dal punto di vista economico ed elettorale) significa avere un successo assicurato in termini di ascolti, così come in campo pubblicitario in termini di acquisti. Interessi economici, dunque e, anche marketing: nella società del consumo l’omosessualità è diventata un “prodotto” come gli altri e come tale viene pubblicizzata, proposta, venduta, Ma che effetto può avere tutto questo sui giovanissimi? Se fossero il “pianeta gay” con la sua vita notturna e il suo stile “cool” e l’immagine di successo dell’omosessuale veicolata dai media ad attrarre i ragazzi prima che le persone dello stesso sesso? L’omosessuale è diventato un “modello” sociale a tutti gli effetti, caratterizzato soprattutto a livello mediatico da modi accattivanti, da una spiccata sensibilità e dal “coraggio” di una scelta presentata come eroica e controcorrente, elementi che generalmente lo hanno collocato in una posizione di successo. I giovani e i giovanissimi senza chiari riferimenti etici in una società scristianizzata e sempre più in corsa verso la paranoia sociale lo vedono così: libero, “ribelle”, allegro, famoso. E lo invidiano. Ecco dunque l’emergere dell’accettazione per un modello, che però non è certo da confondere con una tendenza omosessuale .
Diventare oggi gay per imitazione, per osmosi o più semplicemente per moda si può? Purtroppo come tanti sono diventati drogati per imitazione, così tanti che non sono in realtà di tendenza omosessuale lo diventano per imitazione perché la società corrotta confonde la loro identità. Succede se questa idealizzazione del modello gay non viene monitorata, se i genitori non la intercettano o, peggio, se per natura non la affrontano ritenendola una scelta normale affianco alla eterosessualità. Il modello sociale dell’omosessuale molto spesso riscuote successo tra i giovani anche perché viene presentato come “moderno”, diverso dai modelli maschile e femminile tradizionali che spesso vengo anche legati al passato. E’ come se i ragazzi tentassero di fuggire dalla difficoltà di essere uomini sani psichicamente o donne sane come lo intendono i genitori, la società tradizionale normale, e si rifugiassero in un mondo dove la “fatica” della differenza ( e dell’affermare la propria identità nella differenza) non esistesse: “Stare con una persona dello stesso sesso, ripetono spesso i ragazzi e le ragazze omosessuali, “è più facile”, “non mi crea problemi”, “lei o lui hanno il mio stesso modo di vedere le cose”. Frasi inquietanti che fanno riflettere. Già perché la sfida per il mondo adulto, per la scuola, per la catechesi della Chiesa e per la società diventa allora quella di creare modelli nuovi, modelli di uomini e donne (e di relazioni tra uomini e donne) cui i figli possano ispirarsi senza paura.
La storia ha ampiamente dimostrato che le società in decadenza favoriscono l’omosessualità e con essa la propria autodemolizione, perché la salute della società si basa unicamente sulla famiglia eterosessuale dai legami stabili e duraturi nel tempo.

(Fonte: Don Marcello Stanzione, Riscossa cristiana, 1 agosto 2012)

mercoledì 1 agosto 2012

L’insostenibile leggerezza di Bersani, vescovo delle coppie gay

E bravo Pier Luigi Bersani, che con il suo annuncio obamiano – pensate un po’, punta di lancia del programma per il prossimo governo, dice il nostro candidato premier, sarebbe «il riconoscimento delle coppie gay» – ci consente di registrare la leggerezza di un leader. Come altro definire, se non “leggero”, uno che nel cuore di una crisi devastante per i lavoratori e per le famiglie ci regala la promessa di una minestra riscaldata alla Zapatero, con tutto il tragico fallimento che gli otto anni di Zapatero hanno regalato alla Spagna?
Non abbiamo nulla in contrario, ovviamente, a che ognuno si conduca nella vita sessuale che gli pare e piace. Non siamo sbirri e non abbiamo carriere di successo, come invece hanno coloro che vorrebbero imporci con i tribunali e le manifestazioni dell’orgoglio la loro agenda per la comune vita in società. E non siamo nemmeno finti democratici (e neanche falsi tolleranti) come quelli che esigono per sé un diritto di opinione incontestabile, mentre per gli altri, per chi contesta l’opinione che un bambino cresca meglio con due uomini o due donne piuttosto che con una mamma e un papà, approntano linciaggi mediatici e leggi liberticide come le cosiddette leggi “antiomofobe”.
Il fatto è che questa storia a cui anche Bersani ora vanta di volersi affratellare, è la storia di un “progressismo” fasullo e fallito. Che viene giù da legislazioni d’America e d’Europa del Nord e che riproduce, seppure all’inverso, rovesciato in relativismo, lo stesso moralismo settario che certo protestantesimo ha praticato per secoli. Quel moralismo che, dalla Riforma in avanti, da Munster a Ginevra, una volta attizzava la caccia alle streghe e impiccava l’eversore della Bibbia. Adesso il nuovo “tipo puritano” si scandalizza se non capisci che donna o uomo fa lo stesso (basta “l’amore”, no?) e se non promuovi la cultura dell’indifferenziazione sessuale. È questa la nuova morale “progressista”: indifferenza alla realtà di “come stanno le cose”, per darsi alla glacialità ideologica e puritana dell’astrazione che ha solo sostituito il sesso col dio. Col dio individualista, adorato in solitudine prima, e poi ripudiato, smarrito, infine riaddomesticato, ridotto a notaio della volubilità più fantasiosa dalle combriccole dei preti donna e dai militanti per i matrimoni gay.
C’è stato solo un transfert, lassù, nei paesi nordici che i provinciali progressisti italiani (e prima di loro i poveri spagnoli) hanno voluto imitare, dicono, per “ammodernare” e mettere la società al famoso “passo dei tempi”: dai tempi del Dies Irae di Dreyer è solo cambiato l’ambito in cui religiose beghine e fanatici settari si esercitano: prima era il “libero esame”, adesso è il “libero sesso”.
La crisi del protestantesimo, vera anima della secolarizzazione (e della crisi in casa cattolica), non ha segnato la fine della religione. Bensì, ha alimentato il trasferimento dei suoi peggiori paradigmi – il fideismo, l’acriticità, l’attitudine fanatica e gregaria – sul piano mondano e nell’adorazione incondizionata dei “diritti”. Nel campo dell’azione umana, e a livello dei grandi organismi internazionali, si sono definiti ad esempio “diritti” la violazione di fatti umani elementari: si tratti di embrioni o di ovociti di donne congelati, di aborto come si fa la pulizia dei denti (e che chiamano con falsa lingua e falsa coscienza “diritti riproduttivi”) o di rivendicazioni matrimoniali gaylesbo, bisessuali e transessuali, è una vera e propria “religione universale” quella che, dall’alto di lobby e poteri internazionali, si cerca di imporre ai popoli.
Ma tornando all’Italia, al Bersani-Zapatero, viene da domandarsi: possibile che nel tempo della crisi del debito pubblico, del lavoro, delle nascite (che sono i fattori per cui i mercati non credono in una ripresa europea), la sinistra si ponga il problema di come mostrarsi presentabile alla signora segretario di Stato Hillary Clinton, invece che a una emergenza epocale che imporrebbe l’accantonamento di questioni irrilevanti – se non ulteriormente disgreganti – come il riconoscimento giuridico (con tutto ciò che ne consegue sul piano civile e politico) delle coppie gay? Possibile che non si capisca l’ideologicità negativa che hanno rivendicazioni come queste, che possono tranquillamente essere risolte sul piano del diritto privato, notarile, se proprio due persone dello stesso sesso vogliono scambiarsi impegni, cure, eredità, proprietà, alimenti e quant’altro? Possibile che si debba accettare (e tramandare alle nuove generazioni) come scontato e indiscutibile dogma la menzogna personale e sociale che il rapporto tra due identici sia uguale a quello tra un uomo e una donna, e che di entrambi si possa dire che sono paritariamente “cellule fondamentali di una società”? Possibile che sfugga l’idea di promuovere una riflessione non conformista e non stancamente supina al settarismo ideologico dell’agenda politica gay?

(Fonte: Luigi Amicone, Tempi, 31 luglio 2012)