giovedì 9 ottobre 2008

Le risposte che l’intervistatrice vorrebbe ricevere e che non sono arrivate…

Donne e Chiesa, quale spazio? Perché il «potere» continua a essere di segno maschile? Come conciliare famiglia e carriera? Il cardinale Camillo Ruini risponde alla giornalista Lilli Gruber
Non gli secca essere chiamato Eminenz, il soprannome che gli ha affibbiato Luciana Littizzetto nella popolare trasmissione. «Non è un problema, mi ha fatto pubblicità».
Camillo Ruini mi ha aperto di persona, tanto che per un attimo ho pensato si trattasse di un segretario sosia. Anche perché, sapendo che è la bestia nera dei laici italiani, mi aspettavo un prelato d’altri tempi, alto e autoritario, dal fare inquisitorio. Non un anziano signore cortese, i capelli radi e la voce bassa, appena un po’ curvo, che riceve gli ospiti sulla porta in modo così poco consono al suo ruolo e alla sua fama di inaccessibilità.
Il cardinale mi si presenta come un signore dall’accento emiliano, deciso ma sotto sotto bonario. Un’inedita versione di don Camillo. Si è fatto mandare le domande via e-mail e mi rimprovera perché alcune, sostiene, rispetto al tema della donna «si allargano un po’». Seduto nella poltrona antica, si aggiusta gli occhiali per leggere meglio le risposte che si è preparato. A partire da quella sulle donne nella vita pubblica del Paese. Ce ne sono abbastanza, nella politica e nell’economia? «A me personalmente sembra che questo coinvolgimento stia crescendo, tuttavia c’è ancora molta strada da fare». Una risposta piuttosto politica, ma non si tira indietro quando gli chiedo di precisare. La strada lungo la quale procedere è quella dell’istruzione: «La preparazione anche culturale delle donne ha raggiunto nelle giovani generazioni quella degli uomini, e per certi versi dicono l’abbia superata. Credo che questo sarà un fattore importante per la loro affermazione».
Un altro fattore importante, gli faccio notare, sarebbe il non essere costrette a scegliere tra famiglia e carriera. E il cardinale, difensore strenuo della famiglia, concorda pienamente. Non pensa che la donna debba stare in casa coi bambini e non ha esitazioni nel condannare la società che ancora la costringe al ruolo esclusivo di moglie e madre. «È un problema di organizzazione del lavoro e di servizi sociali. E anche di mentalità: affonda in radici antiche, ma non è qualcosa di inevitabile».
Radici più antiche delle sue non riesco a immaginarle. Camillo Ruini ha scalato le gerarchie di un’istituzione millenaria, in cui la modernizzazione procede con una certa cautela. Ma mi fa notare che viene anche da una famiglia di campagna emiliana, una tradizione di donne forti, magari costrette in casa, capaci però all’occorrenza di lavorare quanto e più degli uomini. Oltre a reggere la famiglia con pugno di ferro. Oggi che invece vanno in ufficio, è possibile che le cure domestiche continuino a toccare a loro? Sua Eminenza scuote serio la testa: «Infatti anche questo è un fenomeno in corso: i mariti oggi lavorano più in casa di quello che facevano nel passato, anche se non certo quanto le donne». Lo incalzo: dovrebbero fare di più, no? Secondo un recente studio Istat, le femmine dedicano a casa e famiglia 5 ore al giorno contro l’1,5 dei maschi. In Svezia il rapporto è 3,5 contro 2,5. «Non sono marito, quindi sono un cattivo giudice in materia» mi fa notare, le labbra sottili piegate in un sorriso. «Però una mano più consistente devono darla, certamente». Mi ritengo soddisfatta. Forse ho appena procurato alle massaie italiane la vera arma letale delle discussioni su chi deve lavare i piatti: «Tocca a te caro, lo ha detto il cardinal Ruini».
Ma a parte l’aiuto reciproco perché, secondo lui, da noi le politiche di sostegno sono sempre state così povere? «Penso che sia un retaggio specifico dell’Italia per due motivi: uno è che da noi la famiglia è sempre stata molto solida, forte e anche prolifica, quindi per lunghi anni il problema non è stato avvertito. Il secondo è un fatto specifico, che ricordo per esperienza personale. Quando ho cominciato a parlare di queste cose, quasi venticinque anni fa, i discorsi sull’andamento demografico della popolazione erano visti come un’eredità del fascismo. I famosi otto milioni di baionette, la demografia come fattore di potenza. Un argomento tabù, che poi è entrato nel discorso pubblico grazie anche alla Chiesa. Ma oggi, quando ormai quasi tutti hanno capito, si stenta ancora ad attuare provvedimenti concreti. Manca una politica organica, che credo sia necessaria per il Paese».
La mia domanda su cosa sia la femminilità lo mette un po’ in imbarazzo. «Posso dire questo: è una dote preziosa, come la mascolinità. Sono entrambe caratteristiche che investono tutta la persona». E quando gli chiedo quale può essere il contributo specifico delle donne alla società fa rispondere papa Giovanni Paolo II, con il finale dell’enciclica Mulieris dignitatem: «Un contributo specifico della donna è rendere più umana la nostra comune umanità. Mi pare una bella formula». Solo una formula, però. Almeno spero: ci mancherebbe solo essere responsabili nientemeno che di umanizzare l’intera società.
Con un compito simile, però, non si potrebbe pensare di aiutarci introducendo per esempio il sacerdozio femminile? Sua Eminenza scuote deciso il capo. Non crede che succederà mai. «Il sacerdozio è concepito come specifica configurazione a Cristo sposo della Chiesa». È la risposta ufficiale. All’atto pratico però, visto che non si tratta di un dogma ma di una tradizione, si potrebbe cambiare. E forse, come scoprirò nel mio viaggio in Inghilterra, le donne potrebbero essere interessate a una carriera ormai poco appetibile per i maschi, come quella di sacerdote. Oltre ad aiutare, con la loro sensibilità e predisposizione all’ascolto, a riportare i fedeli in chiesa. Non riesco ovviamente a convincerlo: le donne nella Chiesa secondo lui stanno bene dove sono. «Sono la maggioranza dei cattolici praticanti e ricoprono di fatto gran parte dei ruoli attivi» mi fa notare. In questo non c’è niente di nuovo: anche nella società ricoprono ruoli attivi, anzi spesso frenetici. Il problema è che non sono quasi mai posizioni di potere. «Non penso che il fatto di non ordinarle sacerdoti comprometta il rapporto tra la Chiesa e le donne. In Italia la frequenza alle celebrazioni è molto più alta che in Inghilterra, senza paragoni possibili» mi ricorda Ruini. Siccome Cristo era un uomo, «si è sempre ritenuto che il sacerdozio debba essere conferito a uomini». Questo è il motivo. E non si può, per una ragione funzionale, cambiare le strutture di fondo della Chiesa.
La sua comprensione delle donne in tanti anni è cambiata: «L’impegno di vivere il sacerdozio e la castità non mi ha affatto impedito di essere davvero amico di molte donne, di avere per loro grande stima e di maturare una certa conoscenza dell’animo femminile, che credo abbia una grande capacità di accoglienza, solidarietà e tenerezza». Per questo anche a lui dispiace l’erotizzazione del corpo, corresponsabile delle cifre allarmanti che ha raggiunto il mercato del sesso. «È un po’ ipocrita scandalizzarsi che ci sia la prostituzione. C’è uno squilibrio profondo nella nostra società, che da una parte è facile allo scandalo e dall’altra è molto incline a stimolare le pulsioni che portano a certi comportamenti» dichiara severo. «Quando le persone sono sottoposte normalmente a una specie di bombardamento riguardo alla sessualità, diventa abbastanza comprensibile che tendano a esercitarla a ogni costo, anche in umilianti forme mercenarie». Sembra così comprensivo che gli chiedo se a questo punto non sarebbe meglio una versione moderna delle case chiuse. Mossa sbagliata: si rabbuia. Lo Stato non può approvare certi comportamenti, dice netto. E lui non ha certo soluzioni al problema.
Anche sulla doppia morale dei politici, che agitano la bandiera del buon costume ma rifuggono dalle soluzioni concrete, che predicano famiglia al singolare ma poi le praticano al plurale, si muove cauto. «È una cosa da cercare di evitare» sostiene, naturalmente. «La coerenza tra affermazioni e comportamenti è molto importante. A cominciare da quella degli uomini di Chiesa, da me per esempio, dato che è troppo facile parlare solo degli altri. Non mi piace però entrare nella vita privata delle persone a motivo del loro ruolo pubblico: rischia di essere una forma di falso moralismo». Nel suo fare pacato, nel suo accento emiliano, nei lampi di umorismo dei suoi occhi azzurri, in queste ore mi è parso di riconoscere l’ombra del don Camillo che sarebbe potuto essere. Mi guardo attorno nella sala imponente, vuota di arredi ma piena del senso millenario del potere. Forse è un peccato che il monello trasgressivo di settant’anni fa sia finito qui. O forse no. Quando gli chiedo la «Ricetta del Cardinale» per le giovani determinate ad avere tutto mi dà un ottimo consiglio, che mostra come potrebbe essere più pastore di anime che mietitore di dogmi. «Accettare il rischio» mi risponde, quasi con calore. «Anche perché le situazioni impegnative come quella di conciliare lavoro, maternità, famiglia fanno crescere e a volte moltiplicano le energie e la creatività personale. È un consiglio che rivolgerei ai giovani in generale: accettate il rischio. Oggi il timore tarpa le ali». (Lilli Gruber, Avvenire, 8 ottobre 2008)

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