giovedì 23 ottobre 2008

L’uso dei bambini nella protesta tradisce le vere intenzioni

Le diffuse proteste delle scuole e delle università contro i provvedimenti che il governo si appresta a varare in Parlamento, sono state paragonate a un nuovo ’68. Un accostamento generico ed inesatto, e per questo decisamente fuorviante soprattutto quando a farsene interpreti sono i grandi media.
Le differenze tra le proteste delle ultime settimane e quelle del ’68, sono notevoli e vanno sommariamente richiamate. La battaglia del 'Movimento Studentesco' ebbe tra i suoi iniziali pretesti, l’opposizione al disegno di legge di riforma dell’università, dell’allora ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Gui, la famosa '23-14', come comunemente era chiamata. Ma quella riforma fu solo il pretesto che fece esplodere un sommovimento culturale che covava da tempo, e che aveva dimensioni in tutti i sensi 'globali'. Un aggettivo questo, che definì l’intero processo del 'movimento', sotto la dicitura: 'contestazione globale'. I benpensanti di allora con il minimalismo che sempre li contraddistingue, chiamarono quell’evento epocale, semplicemente 'rivolta studentesca', solo perché essa trovò il proprio luogo naturale per manifestarsi all’interno degli atenei. Ma in realtà quello che noi oggi diciamo ’68, fu – nella sua distribuzione temporale e geografica – una vera e propria rivoluzione nel senso che, al pari di altri grandi eventi, ha fatto da spartiacque tra due epoche, definendo un 'prima' e un 'dopo' tra due diversi modi di intendere lo sviluppo, le relazioni internazionali e tra i popoli, la ricerca, la cultura, le relazioni tra le generazioni e il senso stesso della vita di ciascuno.
La sconfitta pratica ('effettuale' avrebbe detto Guicciardini) di quel movimento direttamente collegata alla sua carica utopistica, non ha impedito la messa in circuito di tanti atteggiamenti nuovi che da semplici provocazioni di élite, divennero a poco a poco (nel bene e nel male), il motore di un diffuso cambiamento dei comportamenti di massa. Nessun settore della società, uscì indenne da quella rivoluzione culturale. Oltre alla scuola e all’università, basterebbe pensare a quanto avvenne nel sindacalismo, nelle relazioni familiari, per non dire del dissenso interno alle nostre Chiese, e dell’onda crescente dei movimenti dei cosiddetti 'diritti civili', e poi nei media, nella letteratura, nel cinema e nello spettacolo. Insomma tutto fu messo in discussione in modo così totalitario, che da allora, almeno in Italia, non può esservi alcuna protesta che possa esimersi dal paragone con quel movimento. Ecco, dunque, la differenza: le proteste di oggi non sono alimentate dal motore ideologico della rivoluzione; di essa, infatti, non vi è alcuna traccia. Anche se poi nelle piazze – come è accaduto ieri a Milano – il pericolo dei tafferugli è sempre dietro l’angolo.
I ragazzi delle scuole, gli universitari, i maestri e i professori, fino ai ricercatori e ai docenti delle università, si sono organizzati per una protesta settoriale, su pochi obbiettivi e con un alto tasso di frammentazione. Oggettivamente essi rappresentano – in un insieme confuso – le difficoltà particolari di tutti, senza alcuna possibilità, né voglia, di farne una rivoluzione. Non raramente, poi, nelle azioni di questi giorni (si pensi solo ai bambini delle elementari incredibilmente accompagnati a una marcia politica) assistiamo a un alto tasso di strumentalizzazione dei grandi (per età) verso i più piccoli. Ed è questa metodologia, quanto mai infelice, che sta facendo perdere agli 'strateghi' di certo movimentismo favori e consensi. Alle famiglie non piace veder usati i figli per fini anche rispettabili ma di politica scolastica, se non di politica tout court.
Per questo, l’unica parvenza di rivoluzione è rappresentata dall’impossibilità di trovare forme di protesta non ripetitive degli antichi stereotipi di quaranta anni fa. E questa forma, forse, fa velo alla ricerca di una composizione in un equilibrato (e necessario) confronto tra le parti.
(Pio Cerocchi, Avvenire, 22 ottobre 2008)

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