Un’affermazione ed un’omissione: a tacer d’altro, basterebbero queste per rendere conto della non fondatezza di una sentenza che fa discutere, con la quale il Tar del Lazio ha affermato che i docenti di religione cattolica non potrebbero partecipare "a pieno titolo" agli scrutini e la frequenza al loro insegnamento non potrebbe influire sulla determinazione del credito scolastico. Sentenza contro la quale il ministro Gelmini ha annunciato ieri il ricorso al Consiglio di Stato. L’affermazione innanzitutto. Secondo i giudici amministrativi l’insegnamento della religione cattolica comporterebbe "una scelta di carattere religioso": di qui una serie di conseguenze negative per la laicità dello Stato, per la libertà religiosa e per l’eguaglianza dei cittadini senza distinzione di religione. È un’affermazione che sorprende, perché ignora un’abbondante bibliografia in merito, nella quale è chiaramente dimostrato che si tratta di un insegnamento culturale e non confessionale. Ma soprattutto l’affermazione sorprende perché i giudici sembrano ignorare la normativa vigente in materia: basterebbe scorrere le disposizioni di programmi e di libri di testo per rendersene conto. Soprattutto è ignorato lo stesso art. 9 del Concordato che, prevedendo l’ora di religione cattolica nelle scuole pubbliche, ne motiva la ragione in termini esclusivamente culturali. Dunque non si tratta di un insegnamento catechetico, diretto cioè a sostenere un cammino di fede, ma di un insegnamento culturale di ciò che oggettivamente è il cristianesimo, così come trasmesso da quella tradizione cattolica che tanta parte ha avuto nel forgiare l’identità degli italiani e che ancora marca tanto, della sua presenza, la nostra società. Non a caso si tratta di insegnamento che, pur opzionale, è aperto a tutti, anche ai non cattolici, anche non credenti; è aperto in particolare a coloro che hanno interesse a conoscere ciò che la Chiesa cattolica crede e professa, a prescindere da personali scelte di fede.Ma quand’anche fosse un insegnamento confessionale – cosa che, va ribadito, non è – sarebbe per ciò stesso lesivo della libertà religiosa e della laicità dello Stato? Dove sarebbe lesa la libertà religiosa in presenza di un insegnamento che chiunque può rifiutare? Dove verrebbe lesa la laicità dello Stato se questo è a servizio della società civile, in cui è la religione, e non viceversa? Sarebbe davvero laico uno Stato che disattendesse le richieste della società di avere nella scuola di tutti un insegnamento, opzionale, della religione? E che vi sia una consistente richiesta dell’insegnamento è nel fatto che novantuno studenti su cento scelgono ogni anno di frequentare l’ora di religione. E veniamo all’omissione. Posto che nella vigente normativa quello di religione cattolica è insegnamento curricolare – perché tenuto nell’orario scolastico, perché i programmi ed i libri di testo sono normativamente definiti, perché viene impartito da docenti di ruolo che hanno superato un pubblico concorso – ne consegue che per gli studenti che abbiano liberamente scelto di inserire tale insegnamento nel proprio piano di studi vi sia non solo il dovere, ma anche il diritto di essere valutati; che essi abbiano il diritto di veder riconosciuti i crediti scolastici maturati. La sentenza chiaramente frustra tale diritto.Tra le righe della decisione, ma non troppo, si avverte la preoccupazione della conformità costituzionale della normativa vigente in materia. Ma se ad altri spetta il giudizio di costituzionalità, rimane pur sempre che la Corte costituzionale si è pronunciata in merito per ben tre volte, confermando sempre la legittimità dell’ora di religione.
(Fonte: Giuseppe Dalla Torre, Avvenire, 13 agosto 2009)
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