Allora, Antonio Di Pietro ha detto che: 1) «questo è il governo del favoreggiamento alla mafia e che passerà alla storia per aver rafforzato economicamente, e fatto penetrare fin nei più alti ranghi delle istituzioni, il flagello della criminalità organizzata»; 2) «con quali voti pensa di fare la differenza politicamente nel Paese, il Cavalier nostrano, se non con quella dei sodali malavitosi?».Poi quell’altro, Luigi De Magistris, ha detto che: 1) «il governo sta progettando interventi che renderanno il crimine ancora più granitico; 2) «la più grande ed ignobile falsità di Berlusconi e del suo governo consiste nel dichiarare di voler contrastare le mafie... Lui sta massacrando lo Stato di diritto e lo Stato sociale, le controriforme che sta attuando rispondono a un disegno eversivo che sta distruggendo la democrazia nel nostro Paese». Bene. Questi due esagitati, Antonio Di Pietro e Luigi De Magistris, sono stati due magistrati: due persone votate a decidere del bene primario, ossia la libertà altrui, due persone in grado di rovinare vite, distruggere imprese, mandare in malora famiglie, azzerare centinaia di posti di lavoro, far cadere giunte e governi democratici, fare e disfare senza mai pagarne lo scotto, mai, neppure mezza volta, questi due appartengono a una categoria a cui dovrebbero tremare i polsi per qualsiasi decisione presa, è gente che l’immaginazione peraltro vorrebbe imperturbabile, ferma, equilibrata, dotata di peculiarità non comuni. E invece eccoli: due demagoghi da strapazzo capaci di dire e fare qualsiasi cosa, due che erano di parte - si sospettava - e infatti lo sono, due che facevano politica - si vociferava - ed ecco che la fanno, due che una buona parte della nostra classe giornalistica - adesso – osserva tuttavia solo come due elementi un po’ così, pittoreschi, che straparlano per mestiere, due che sono sorti come funghi la notte scorsa anziché aver fatto parte della disgraziata cronaca di un Paese che mai, mai, mai comprende ciò che accade mentre esso accade.Gentili colleghi, dunque ditelo, una buona volta: non è possibile che due personaggi del genere possano diventare magistrati. Non è possibile che due magistrati del genere possano diventare politici. Non è possibile che la medesima classe giornalistica seguiti a non comprendere che l’anomalia dei due, una volta smascherati e gettata la toga, non viene neutralizzata e addomesticata, ma si sposta solamente da una parte all’altra, si insinua e diffonde come un virus, come una malattia. Senza neppure accorgercene, in questo Paese, il livello della disputa e della polemica politica sono diventati borderline: qualsiasi cosa può essere detta e sostenuta impunemente, basta farlo, basta aprir bocca. Dire che ormai siamo agli «insulti» non rende l’idea perché quelli ormai fioccano dappertutto, anche nei famosi Paesi normali: ma in quale Paese, chiediamo, è ormai diventata sistematica e mediaticamente accettata la calunnia, l’ignominia, la pura invenzione? Forse ha ragione chi dice che gli squilibrati professionali andrebbero soltanto ignorati, che il loro delirio mira soltanto a finire in un qualsiasi articolo di giornale, questo compreso: ma certo snobismo e certa finta superiorità, d’altra parte, sono soltanto ignavia, sono soltanto i siparietti dietro i quali si nasconde la rinnovata incapacità di una classe politica e giornalistica di chiamare le cose col loro nome. Dario Franceschini seguiti pure ad allearsi con questa roba e a farsi massacrare, se crede; gli analisti seguitino ad annoverare «l’unica opposizione» dell’Italia dei Valori tra gli ordinari strumenti di lotta politica, se vogliono. In questo Paese quelli che l’avevano detto non se li fila nessuno, e chi non ne azzecca una invece rimane regolarmente in cattedra, ma pace, noi lo diciamo lo stesso: Di Pietro ha già fatto una rivoluzione e cercherà di farne un’altra, e le rivoluzioni tanto democratiche non sono mai state. Ecco, l’abbiamo detto: purché sia chiaro che lo stiamo dicendo. Di Pietro non ci fa più solo ridere. Di Pietro è pericoloso.
(Fonte: Filippo Facci, Il Giornale, 20 agosto 2009)
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