giovedì 28 ottobre 2010

Ancora sulla Bibbia Cei: traduzioni edulcorate

Prima lettura della Messa di oggi: Efesini 6,1-9. Finora il v. 5 suonava: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo». Una traduzione letterale, abbastanza fedele al testo originale (Οἱ δοῦλοι, ὑπακούετε τοῖς κατὰ σάρκα κυρίοις μετὰ φόβου καὶ τρόμου ἐν ἁπλότητι τῆς καρδίας ὑμῶν ὡς τῷ Χριστῷ). La nuova versione CEI invece ci fa ora leggere: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo». La nuova traduzione in un punto migliora la precedente: invece di “con semplicità di spirito”, rende, più letteralmente, con “nella semplicità del vostro cuore”. Sembrerebbe dunque che uno dei criteri seguiti sia quello di una maggiore fedeltà al testo originale. E invece, che cosa succede? I “padroni secondo la carne” (che sarà pure un’espressione non usuale nel linguaggio corrente, ma certo di non impossibile comprensione) diventano “padroni terreni”. Si potrebbe discutere sull’opportunità di rimpiazzare quell’espressione “secondo la carne”, così comune nella Bibbia; ma passi (del resto anche la Volgata aveva reso con una certa libertà questo passo: «oboedite dominis carnalibus»).
Ciò che risulta assolutamente incomprensibile è invece l’annacquamento dell’espressione seguente (“con timore e tremore”), che diventa uno slavato “con rispetto e timore”. Notate: il “timore” si trasforma in “rispetto”, ma, al tempo stesso, inaspettatamente si sostituisce al “tremore”. Mi chiedo: perché mettere le mani su una formula fissa, ricorrente nella Bibbia, che semmai andrebbe spiegata, non alterata? San Paolo la usa diverse volte: oltre che qui, in 1Cor 2,3; 2Cor 7,15; Fil 2,12. Giustamente, la TOB (acronimo di Traduction Oecuménique de la Bible) nel presente passo annota: «Espressione biblica che designa una situazione in cui l’uomo impegna la propria esistenza e dove, al di là delle circostanze, si trova alle prese con Dio». In nota a Fil 2,12, spiega: «Coppia di parole già conosciuta nella Bibbia e nel giudaismo, per esprimere la debolezza che si prova di fronte a Dio vivente e santo, che manifesta la sua esigenza attraverso l’obbedienza di Cristo». Nel caso di 2Cor 7,15, sempre la TOB postilla: «Espressione corrente, che esprime l’atteggiamento dell’uomo dinanzi alla grandezza e alla maestà divine…». Se si tratta di un’espressione così comune, in qualche modo “tecnica”, perché modificarla? Meraviglia poi che nel Sal 2,11 (possibile fonte di tale formula) la nuova versione CEI traduce letteralmente: «Servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore» (dal che si deduce che il tremore è addirittura compatibile con la gioia).
Qualcosa di simile è accaduto nel vangelo di san Luca (14,26). Finora leggevamo: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Ora leggiamo: «Se uno viene a me e non mi ama piú di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Si dirà: ma questo è esattamente il senso che intende Gesù con quell’espressione. Il passo parallelo di Matteo (10,37) suona infatti: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me» (in tal caso, traduzione vecchia e nuova della CEI più o meno si equivalgono). Per l’appunto: Matteo sente il bisogno di sciogliere quell’espressione così ruvida, propria di una lingua priva di sfumature; mentre Luca la lascia così com’è (per rispetto degli ipsissima verba Iesu), lasciando agli interpreti il compito di spiegarla.
Ritengo che il compito del traduttore non possa essere confuso con quello dell’esegeta: al primo è chiesto di rendere in una lingua diversa il testo originale, sforzandosi di rimanervi il più fedele possibile, in modo che i lettori, seppure in un altro idioma, possano assaporare il gusto (se necessario, anche l’asprezza) dell’originale. Il traduttore non può sostituirsi all’esegeta: il compito di interpretare e di spiegare non spetta al primo, ma al secondo. Capisco che talvolta si possano incontrare concetti oggi non politicamente corretti; ma lasciamo che sia l’interprete a edulcorarli, se proprio è necessario. Anche perché le interpretazioni possono variare (e di fatto sono variate) da un’epoca all’altra, a seconda delle mode del momento; il testo, invece dovrebbe rimanere sempre lo stesso. Tradurre troppo liberamente rischia di risolversi non solo in un tradimento dell’autentico significato del testo, ma anche in un tradimento del lettore, che ha il diritto di accostarsi al testo così come esso realmente è stato scritto

(Fonte: Querculanus.blogspot.com, 27 ottobre 2010)

Povera Oriana, tradita dall`eredita`

Domenica sera, lo Speciale Tg1 condotto da Monica Maggioni, ha trasmesso un ricordo di Oriana Fallaci nel quale la sorella Paola ha, tra le altre cose, raccontato i problemi sollevati dal testamento con il quale l’autrice di Insciallah, morta (come noto) senza figli, ha nominato erede universale suo nipote Edoardo Perazzi, uno dei figli di Paola appunto.
E così apprendiamo che anche in casa Fallaci-Perazzi i rapporti si sono irreparabilmente deteriorati per questioni di eredità. Apprendiamo che, per diatribe relative al denaro in senso lato, dalla morte di Oriana, Paola non parla più con suo figlio, Edoardo non ha più rapporti con il fratello Antonio, e via dicendo. Purtroppo, non è né il primo né sarà l’ultimo caso del genere. Fin troppo spesso succede (è successo e succederà) che nelle piccole come nelle grandi famiglie, siano esse ricche o povere, ristrette o allargate, alla morte (o finanche in prossimità di essa) di colui o colei che “tiene”, si finisca ai ferri corti per questioni di spartizione.
Non che all’interno delle famiglie i rapporti siano mai facili, come la cronaca quotidianamente testimonia, e come (con un grado di crudeltà minore e più sfumata) la realtà a noi prossima insegna. Gelosie, ripicche, invidie sono una triste e drammatica costante nelle storie di tanti nuclei.
La lite per l’eredità presenta, però, un grado di squallore in più. Davvero forse si tratta di una delle situazioni più tristi. Più tristi perché quel capitale, quei beni, quei tesori – anche in senso affettivo e metaforico – per cui il de cuius ha vissuto, si è impegnato, ha faticato, invece di divenire fonte di gioia e di felicità per chi rimane, si tramutano in un’arma di odio che ingenera rancori sordi e incomprensioni difficilmente sanabili. Meglio non avere nulla – dice la saggezza popolare. Meglio davvero.

(Fonte: Giulia Galeotti, Piùvoce.net, 27 ottobre 2010)

Mons. Marchetto come il vescovo Romero e don Milani?

Monsignor Agostino Marchetto martire quasi come il vescovo Romero, ammazzato in Salvador dagli squadroni della morte. L’ex segretario del Pontificio consiglio per i migranti, il protagonista delle note accuse al governo, dalle quali più volte il Vaticano aveva preso le distanze, è stato accostato ai preti uccisi dalla mafia, come don Puglisi, o a «profeti» emarginati dall’autorità ecclesiastica come don Milani. Se le parole hanno ancora un senso, non si può non restare stupiti dai contenuti di un articolo pubblicato su migrantitorino.it, il sito web dell’Ufficio per la pastorale dei migranti della diocesi di Torino, che recensendo un libro di Marchetto (Chiesa e migranti. La mia battaglia per una sola famiglia umana, intervista di Marco Roncalli, La Scuola Editrice, 158 pagine, 9 euro), ha accostato la vicenda del prelato dimissionario a quella di preti e vescovi che hanno versato il loro sangue per il Vangelo. Come si ricorderà, lo scorso settembre Papa Ratzinger accettava dimissioni di Marchetto al compimento dei 70 anni. Era stato lo stesso arcivescovo, nel 2009, dopo che per due volte il portavoce vaticano padre Lombardi aveva preso le distanze dalle sue parole, a presentare la rinuncia. Una rinuncia accolta prontamente un anno dopo, lo stesso giorno del compleanno. Ora l’arcivescovo ha sintetizzato il suo impegno sul fronte immigrati nel libro intervista con Marco Roncalli, fresco di stampa, rivelando, tra l’altro, che un documento vaticano su questo argomento è in gestazione da otto anni. E nel recensire il volume, il sito dell’ufficio diocesano di Torino, citando un anonimo redattore di una nota rivista missionaria, ha scritto: «I tempi della Chiesa sono lunghi, si sa. Alcuni tempi non sono di questo mondo. Se (Marchetto) fosse stato un vescovo nel Centro America negli anni 80, lo avrebbero fatto fuori come mons. Romero, che cercava di dare voce ai poveri de El Salvador e gli hanno sparato mentre diceva messa. Il richiamo non è azzardato. In certi parti d’Italia, lo scenario italiano è parimenti truce a quello centroamericano, se ricordiamo la tragica storia di don Puglisi, assassinato dalla mafia. A Roma, invece, i metodi sono decisamente più soft, a base di comunicati sottili, di silenzi e di gesti simbolici ma che centrano egualmente il fraterno bersaglio. Il fuoco amico non colpisce di fronte. Basta ricordare gli ultimi profeti, i don Mazzolari e i don Milani». Il paragone, a mio modesto avviso è un tantino azzardato. Ovviamente monsignor Marchetto non c’entra nulla con questa recensione, e non credo si senta poi così a suo agio con questo accostamento.

(Fonte: Andrea Tornielli, Sacri Palazzi, 24 ottobre 2010)

Belgio: Università di Lovanio l’apostata

Mentre uno dei collegi tra i più esclusivi del mondo, il collegio cardinalizio, si riassesta e riorganizza al proprio interno con 24 nuove entrate tra le quali, a sorpresa, non figurano i nomi di due arcivescovi in sedi d’eccezione – Giuseppe Betori di Firenze e Braulio Rodríguez Plaza di Toledo –, una delle più prestigiose istituzioni cattoliche d’Europa, l’antica Università di Lovanio, sembra voler cedere definitivamente il passo al mondo, al secolo, alla cultura laicista votata all’espulsione della cattolicità dal discorso pubblico. E’ di queste ore la notizia che il rettore del nobile ateneo, Mark Waer, ha detto d’essere intenzionato a espungere una volta per tutte l’aggettivo “cattolica” dalla denominazione dell’università. Si tratta di un requiem clamoroso per una dizione un tempo simbolo di un mondo del quale andare fieri, un addio che assume contorni bizzarri se si leggono le motivazioni che spingono a questo storico passo. Sul banco degli accusati ci sono Roma, il Papa, la curia romana, la sua funzione di watchdog della dottrina cattolica. A detta di Waer, Roma ha superato ogni decenza, ogni limite del consentito. Primo: predica bene ma razzola male, come gli scandali della pedofilia nel clero sembrano dire. Secondo: è retrograda, reazionaria, chiusa, come le critiche al Nobel per la medicina, il “papà” della fecondazione in vitro, Robert Edwards, dimostrano.
La Conferenza episcopale belga sembra inerte di fronte alla proposta di Waer. Anche l’arcivescovo conservatore di Malines-Bruxelles e primate del Belgio, André-Joseph Léonard, sembra potere poco o nulla contro quello che la scorsa primavera, davanti alla Pontificia commissione biblica, Benedetto XVI ha definito come l’emergere di una nuova dittatura, “la dittatura del conformismo”. Ha detto: “C’è un conformismo per cui diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti”. E ancora: “La sottile aggressione contro la chiesa, o anche meno sottile, dimostrano come questo conformismo può realmente essere una vera dittatura”. Del resto, molto poco Léonard aveva potuto fare anche contro un altro clamoroso sfondamento della cultura secolarista all’interno della cattolicità: lo sventramento da parte della polizia belga della tomba del prestigioso cardinale Léon-Joseph Suenens alla ricerca di carte segrete che volevano inchiodare “il grande orco”, l’ex primate del Belgio Godfried Danneels ritenuto colpevole di aver offerto copertura a preti pedofili. Fu il primo gesto clamoroso che dimostrò anche una certa arrendevolezza della chiesa. Una chiesa abbandonata a se stessa, a paure un tempo ritenute di poco conto. Léonard, allora, provò ad alzare la voce dicendo che le incursioni della polizia erano scene degne del “Codice da Vinci”.
Ma insieme disse, diplomaticamente, che “la giustizia deve fare il suo corso”. Sono decenni che Lovanio non ha pace. Fondata nel 1425 da Papa Martino V, è stata punto di riferimento dell’intellighenzia cattolica europea. Dopo il Vaticano I venti nuovi l’hanno attraversata, fino all’espulsione della sezione francofona, forzatamente trasferita a Louvain-la-Neuve con l’avallo dei vescovi del paese. Nella vecchia Lovanio l’ala fiamminga ha promosso dottrine incompatibili, soprattutto in campo biomedico, con la morale cattolica. C’è anche chi ha cercato di proporre la legittimità, ai sensi canonici, delle coppie gay. Il tutto con il silenzio delle gerarchie. Stante così le cose espungere l’aggettivo “cattolico” altro non sarebbe che prendere atto di un dato di fatto: Lovanio cattolica non lo è più. Della cosa se n’era accorto, anni fa, anche monsignor Edouard Massaux, “rettore di ferro” di Lovanio fino al 1986. Pochi giorni prima di morire disse: “Rifiuto e proibisco formalmente la presenza ai funerali di una delegazione ufficiale dell’Università di Lovanio che dopo il mio ritiro ha pubblicamente ritenuto di dover prendere le distanze dall’istituzione della chiesa”. Così, tempo addietro Massaux. E oggi? Un colpo, prima o poi, potrebbe venire direttamente da Roma, dalla curia romana, oggi la grande nemica della nuova Lovanio.

(Fonte: Paolo Rodari, Il Foglio, 21 ottobre 2010)

martedì 26 ottobre 2010

Il fascino quotidiano del bene

Lo straordinario successo che sta avendo il film di Xavier Beauvois sui monaci di Tibhirine merita forse qualche considerazione che scavi un po’ in profondità sulle ragioni di un’accoglienza così favorevole. Come mai la critica è rimasta subito colpita e ora gli spettatori - artefici di un passaparola che dilata gli echi positivi che si rincorrono ovunque, a partire dalla laicissima Francia, avamposto delle proiezioni per il grande pubblico - paiono commossi e affascinati? Penso che un elemento tutt’altro che secondario sia stata la capacità del regista di mostrare che una vocazione rara e particolare come quella monastica - vissuta da una esigua porzione dei credenti che professano una fede a sua volta non più maggioritaria - sia in realtà una scelta umanissima, fatta di gesti quotidiani, di limiti e di paure, di ritmi e vicende addirittura quasi banali, di non apparizione, di quotidianità ripetitiva. E sia una scelta operata da persone normalissime, magari profondamente diverse tra loro per cultura, formazione, sensibilità, ceto sociale: persone nelle quali ciascuno si può riconoscere, a prescindere dalla condivisione della medesima fede. Il monachesimo, nelle sue espressioni più genuine, è sempre stato una scelta di controcultura, di volontaria e libera marginalità: non nel senso di un’opzione elitaria, di un consesso esclusivo di puri e duri, ma nel suo voler cercare il senso di ciò che si vive, nell’anelare a tradurre in scelte quotidiane nella loro ordinarietà le convinzioni più profonde che lo animano, nel non lasciarsi condizionare dai comportamenti della maggioranza quando questi si discostassero dalle esigenze evangeliche.
Un fenomeno marginale, dunque, sovente periferico persino rispetto alla chiesa stessa - non si dimentichi la sua natura fondamentalmente non clericale - ma non autoescludentesi: un modo «altro» per essere al cuore dell’umanità, là dove pulsano le energie vitali di ogni convivenza. Oggi, in una società in cui dimensioni come il silenzio, l’interiorità, la discrezione, la condivisione, l’obbedienza a istanze etiche, la ricerca della pace e della solidarietà paiono ignorate se non addirittura irrise, la semplice vita quotidiana di un pugno di uomini può destare nei cuori di chi li incontra - anche solo attraverso lo strumento della finzione cinematografica - una spontanea «simpatia», può richiamare alla memoria desideri sopiti, aneliti a una vita più umana e pacata. Nel devastante dominio dell’apparire, della ricerca ossessiva dell’interesse personale a scapito degli altri e della collettività, della soddisfazione degli impulsi più incontrollati può suonare come una salutare boccata d’aria fresca la semplice testimonianza di chi liberamente decide di tener conto degli altri nel proprio comportamento, di chi accetta di condividere i doni - materiali come intellettuali e spirituali - che possiede, di chi affronta la sofferenza, il dolore e la morte come parti integranti di una vita che vale la pena di essere vissuta. Sovente nasce così una paradossale «simpatia» verso chi si comporta in modo tanto diverso da noi: il suo semplice restare lì, fedele nel poco, fa sorgere una nostalgia profonda per i piccoli gesti quotidiani, il ricordo di come a volte basta uno sguardo, un tocco delicato, una parola sommessa, un pasto preparato con cura per farci riscoprire la grandezza delle nostre vite, l’umile bellezza di vivere non solo gli uni accanto agli altri, ma gli uni con gli altri, solidali nel condividere la comune umanità. Non abbiamo forse bisogno - oggi come sempre, e forse più che mai - di riscoprire l’antico senso della fedeltà alla parola data, dell’onorare gli impegni assunti, dell’alimentare incessantemente di senso i gesti più banali che compiamo ogni giorno per sottrarli all’asfissiante monotonia della routine? Apparentemente saldezza e perseveranza non godono oggi di molto credito eppure, se ci interroghiamo in sincerità, cos’altro ci attendiamo dalle persone che ci stanno accanto? Cos’altro desideriamo se non che le persone amate restino fedeli a se stesse e a noi nel mutare di eventi e stagioni? Forse ci manca la consapevolezza che affinché questo sia possibile è necessaria una dinamica molto più profonda della volubilità cui siamo abituati, dell’affannoso rincorrere nuove prospettive, dell’infantile inseguire l’ultima emozione di un momento: la fedeltà infatti esige una capacità di mutare atteggiamento, di adattarsi alle situazioni che cambiano, di adeguarsi all’altro che accanto a me cresce, cambia, lavora, riposa, soffre, si rallegra, invecchia, muore, in una parola: vive. Credo sia proprio questo uno dei messaggi più eloquenti di «Uomini di Dio», un messaggio non riservato ai monaci né ai cristiani o ai credenti: aver saputo mostrare la quotidianità del bene, le normali umanissime potenzialità che ciascuno di noi porta in sé, la capacità di amare e di essere amati senza calcoli, la possibilità di vivere con dignità anche nell’angoscia e nella paura, il faticoso discernimento su come affrontare situazioni drammatiche, cercando non come venirne fuori a tutti i costi, ma piuttosto come poterle attraversare tutti insieme.

(Fonte: Enzo Bianchi, La Stampa, 24 ottobre 2010)

giovedì 21 ottobre 2010

A servizio della Chiesa, sotto la guida di Pietro

Si direbbe che Mons. Bernard Fellay sia diventato particolarmente loquace negli ultimi tempi: non passa mese che non rilasci qualche intervista. Secondo me fa bene: si tratta di una strategia comunicativa efficace per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Se non altro, è meglio che parli lui, che per lo meno riesce a mantenere sempre un tono equilibrato, piuttosto che i suoi collaboratori, che ogniqualvolta aprono bocca combinano qualche pasticcio.
Anche nell’ultima intervista, rilasciata a Nouvelles de Chrétienté di settembre-ottobre 2010 (tradizione italiana su DICI), il Superiore generale della FSSPX conferma la sua saggezza e le sue doti diplomatiche. Quando, per esempio, viene interrogato sulle possibili soluzioni all’attuale crisi della Chiesa, risponde che, pur non escludendo una eventuale — “miracolosa” — soluzione istantanea, la via normale non può che essere una soluzione graduale, dimostrando cosí un realismo raro fra i suoi seguaci.
Concordo pienamente con lui, quando indica gli strumenti per il superamento della crisi (nomine episcopali; riforma dell’insegnamento nelle università pontificie; formazione dei sacerdoti nei seminari). Mi permetto di essere, in questo caso, un po’ piú pessimista di lui, che pensa che siano sufficienti dieci anni per raddrizzare la situazione. Non è facile intervenire nei settori da lui indicati. Non è da oggi che si cerca di farlo: Giovanni Paolo II ha impiegato tutto il suo lungo pontificato per dare vita a una nuova generazione di Vescovi. Con quale risultato? Anche ai nostri giorni, tutte le volte che il Papa cerca di toccare certe situazioni, vediamo che cosa succede. Le università pontificie: non sarà facile avviare un nuovo corso, dal momento che le nuove leve vengono formate da quegli stessi professori che si vorrebbe rimpiazzare. Lo stesso dicasi dei seminari, dove i formatori piú tradizionali sono costretti a fare i conti con l’ambiente circostante, per lo piú refrattario a qualsiasi tentativo di “disciplinamento”.
La parte che mi sembra piú interessante nell’intervista è quella centrale, dove si chiede a Mons. Fellay un giudizio sulla conferenza di Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, del 2 luglio 2010 (potete leggerne sul sito della Fraternità San Pietro, a cui la conferenza era rivolta). Mons. Fellay risponde:
«Questa conferenza è l’applicazione molto logica dei principi enunciati nel dicembre del 2005 da Benedetto XVI. Essa ci fornisce una presentazione dell’ecumenismo passabilmente differente da quella che abbiamo ascoltata per quarant’anni… una presentazione mescolata ai principi eterni sull’unicità della Chiesa e sulla sua perfezione unica, sull’esclusività della salvezza. In questo si vede bene un tentativo di salvare l’insegnamento di sempre e contemporaneamente un Concilio rivisitato alla luce tradizionale».
Vede Mons. Fellay che è possibile dare un’interpretazione “cattolica” del Vaticano II? Che non è necessario rifiutare il Concilio per continuare a dirsi cattolici? Monsignore dovrà convenire che la strada indicata da Benedetto XVI, nel suo discorso alla Curia Romana del 2005, è l’unica percorribile; non ci sono alternative, se si vuole venir fuori dall’impasse in cui si trova la Chiesa attuale; non è pensabile che la Chiesa possa “abolire” un Concilio. Mons. Fellay trova, se non pienamente condivisibile, per lo meno “interessante” questa “versione rivista” del Concilio:
«È interessante, nel senso che ci si presenta un nuovo Vaticano II, un Concilio che in effetti non abbiamo mai conosciuto e che si distingue da quello che è stato presentato negli ultimi quarant’anni. Una sorta di nuova pelle! È interessante soprattutto per il fatto che vi si trova condannata con molta forza la tendenza ultra-moderna. Ci si presenta una sorta di Concilio moderato o temperato».
Tutto bene, dunque? No, perché i lefebvriani possono accettare questa nuova interpretazione del Concilio solo come primo passo verso un ritorno sic et simpliciter al pre-Concilio. Per esempio, a proposito dell’ecumenismo, Mons. Fellay afferma:
«Il miscuglio, quantunque interessante, lascia ancora aperte delle questioni di logica sul ruolo che giuocano le altre confessioni cristiane… chiamate, fino a Pio XII incluso, “false religioni”. Si oserà usare finalmente questi termini di nuovo?».
Mi chiedo: che bisogno c’è di tornare a un certo tipo di linguaggio, quando i principi sono chiari? Se c’è una utilità del Concilio, che mi sembra difficile mettere in discussione, è proprio il suo approccio pastorale, tendente, in questo caso specifico, a eliminare certe espressioni di cui non si capisce l’opportunità ai nostri giorni. Possibile che Mons. Fellay non comprenda che possiamo essere autenticamente cattolici, senza dovere necessariamente apostrofare i nostri fratelli acattolici come seguaci di “false religioni” (espressione oltretutto falsa, se applicata a chi appartiene all’unica religione cristiana).
L’altro punto di divergenza sta nella individuazione delle cause dell’attuale crisi della Chiesa:
«Diciamo che una buona parte dei nostri attacchi si vede giustificata, una buona parte di ciò che noi condanniamo viene condannata. Ma se la cosa è condannata, resta la grande divergenza sulle cause. Poiché in definitiva se a proposito del Concilio è stato possibile un tale disorientamento degli spiriti, e a un tale livello, e di una tale ampiezza… ci sarà bene una causa proporzionata! Se a proposito dei testi del Concilio si constata una tale divergenza d’interpretazione, bisognerà bene un giorno convenire che le deficienze di questi testi vi svolgono una parte non da poco».
Certo, prima o poi, un discorso sui testi del Concilio e la loro corretta interpretazione, come chiede Mons. Gherardini, bisognerà pur farlo. Ma mi sembra troppo semplicistica l’analisi di Mons. Fellay: se i testi conciliari hanno prodotto interpretazioni cosí divergenti, significa che quei testi sono in sé stessi deficienti, e vanno perciò corretti. Ragionando in tal modo, si dovrebbe correggere anche il Vangelo, visto che ha dato origine a… tante eresie. Se un testo è passibile di molteplici interpretazioni (e qualsiasi testo lo è), non per questo diventa manchevole; l’importante è darne l’interpretazione corretta. Proprio per questo esiste nella Chiesa un Magistero che ci accompagna in tale sforzo ermeneutico. Che bisogno ce ne sarebbe se tutti i testi su cui si fonda la nostra fede fossero chiari in sé stessi?
Io mi vado sempre più convincendo che i documenti conciliari sono il “massimo” che il Vaticano II poteva produrre; non possiamo chiedergli di piú. Che cosa voglio dire? Voglio dire che il Concilio Vaticano II va “storicizzato”, va inserito nel contesto storico in cui si è svolto; esso non può essere valutato con i criteri odierni. Spesso affermiamo (mi ci metto dentro io per primo) che il Concilio ha provocato la crisi della Chiesa; ormai sono giunto alla conclusione che il Concilio non è la causa, ma l’effetto della crisi. La crisi, nella Chiesa, già esisteva; essa ha radici assai profonde; bisogna andare indietro nei decenni e forse nei secoli. Per lungo tempo si è cercato di arginarla con vari interventi (si pensi alla condanna del modernismo di cento — diconsi cento! — anni fa); ma a un certo punto ciò non è stato piú possibile. In un momento di relativa (forse meglio sarebbe dire: apparente) tranquillità, un Papa pensò bene di dare voce a questo malessere diffuso nella Chiesa; e ne venne fuori il Vaticano II. Se si fosse lasciata mano libera all’ala progressista, ora non saremmo qui a discutere, dal momento che la Chiesa già oggi sarebbe solo un ricordo del passato. Il Concilio riuscí a mediare fra le diverse posizioni e a raggiungere un punto di equilibrio (di qui l’ambiguità di certi testi: solo cosí potevano essere accettati da tutti). Ovviamente dopo il Concilio, l’ala progressista, che era rimasta delusa dalle conclusioni ufficiali del Concilio, tentò di imporre le sue vedute tirando in ballo lo “spirito del Concilio”. Non si può negare che tale tendenza abbia fatto strada nella Chiesa, conquistando posizioni ragguardevoli (fra i Vescovi, nelle università pontificie e nei seminari, appunto). Per fortuna è rimasta sempre la ferma mano di Pietro a guidare la Chiesa e a interpretare correttamente il Concilio (l’interpretazione “cattolica” del Vaticano II non è una invenzione di Mons. Pozzo o di Benedetto XVI, ma è quella che è stata sempre praticata dai Papi in questi anni). Questo i lefebvriani non lo hanno mai capito: hanno pensato che il Papa fosse passato dall’altra parte; e, invece di aiutarlo, hanno cominciato ad attaccarlo. Ora pensano che la storia stia dando loro ragione; che la Chiesa sia salva grazie a loro. No, cari fratelli, la Chiesa è salva grazie alla roccia di Pietro e a tutti quei semplici fedeli che in questi anni, nel silenzio e nell’obbedienza, non si sono mai staccati da quella roccia.
Alla fine dell’intervista viene chiesto a Mons. Fellay «quale ruolo possono svolgere i fedeli legati alla Tradizione in quest’opera di restaurazione». Se mi è permesso rispondere al suo posto, vorrei dire che essi possono svolgere un ruolo fondamentale. A una condizione: a condizione che smettano di pensare a una Chiesa ideale, che esiste solo nelle loro menti, e pongano le loro energie a servizio della Chiesa reale, cosí com’è, con tutti i problemi che essa vive, sotto la guida di colui al quale, solo, è stato affidato il timone della Chiesa.

(Fonte: Querculanus, Senza peli sulla lingua, 20 ottobre 2010)

Se lo Spirito soffia salesiano

Probabilmente i primi a sentirsi imbarazzati saranno i salesiani stessi. Ma è un fatto che, da quando il loro confratello cardinal Tarcisio Bertone regge la segreteria di Stato vaticana, lo Spirito Santo ha indubbiamente gettato un occhio di riguardo sui figli di san Giovanni Bosco.
Non si contano più, infatti, i salesiani divenuti vescovi in tutte le parti del mondo; secondo un censimento recente sono 120, l’ultimo è l’arcivescovo del Guatemala nominato all’inizio di ottobre. Ci sono addirittura una decina di eccellenze sdb (l’acrostico salesiano “Società don Bosco” che ora viene sciolto ironicamente «Siamo Di Bertone») in India e parecchie in America Latina. Il solo Benedetto XVI ha nominato almeno 27 vescovi salesiani... Non per niente a maggio il segretario di Stato è stato il grande protagonista dell’incontro di tutti i vescovi salesiani: a Castelnuovo Don Bosco sono accorsi in 93.
Poi ci sono le pedine collocate in posti chiave della Curia romana: il cardinale Raffaele Farina all’Archivio vaticano, l’arcivescovo Angelo Amato prefetto della Congregazione delle cause dei santi e il vescovo Mario Toso segretario del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace. Tra le porpore targate Valdocco vanno annoverate inoltre il cardinale honduregno Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, il nicaraguense Miguel Obando Bravo e il cinese Joseph Zen, la cui nomina però precede l’avvento di Bertone alla segreteria di Stato.
Non basta: ci sono ben 4 salesiani (e nessun gesuita...) tra i 30 componenti della Commissione Teologica Internazionale, che dipende dall’ex Sant’Uffizio. Il vicedirettore dell’«Osservatore romano», Carlo di Cicco, nel suo curriculum annovera anche una lunga collaborazione col «Bollettino salesiano». Monsignor Enrico Dal Covolo, neo rettore dell’Università Lateranense, è salesiano: ovvio. Da sabato, poi, anche il direttore del coro della Cappella Sistina è un salesiano: don Massimo Palombella. E probabilmente questo censimento sarà manchevole.
Che dire? Il cardinal Bertone, all’inizio del suo servizio, era stato attaccato per certe nomine «sbagliate» (per esempio il vescovo tradizionalista austriaco Wagner, costretto poi a dimettersi ad appena 15 giorni dall’arrivo a Linz) e può darsi che sia stato tentato di tutelarsi da ulteriori errori preferendo gente fidata e «conosciuta». D’accordo. Però adesso non esageri, eminenza....

(Fonte: Roberto Beretta, www.vinonuovo.it, 18 ottobre 2010)

lunedì 11 ottobre 2010

I molti lati oscuri del nobel ad Edwards

Quattro milioni di bimbi nati in provetta. 41 milioni di embrioni buttati via, inutili o non attecchiti. Il fallimento della tecnica messa a punto da Robert Edwards, proclamato Nobel per la medicina 2010, sta tutto in questi numeri a dir poco agghiaccianti. Numeri che, ovviamente, la stampa di tutto il mondo e anche quella italiana, impegnata nella glorificazione dell’Edwards come un benefattore dell’umanità, si è ben guardata dal diffondere.
I verdetti del Comitato di Stoccolma sono da tempo molto discutibili e appaiono del tutto sbilanciati verso una tecno-scienza che non di rado muove imponenti business. Tra l’altro si adducono motivazioni che nemmeno rispondono a verità, come il caso stesso di Edwards dimostra: lo scienziato è stato presentato come colui che “ha reso possibile la cura dell’infertilità”. Ma la fecondazione in vitro non è una cura, semmai un modo per bypassare il problema. L’infertilità rimane, non c’è nessuna guarigione. La Fivet è solo una soluzione tecnologica per aggirare i problemi di una coppia. Tutto qui. E il fatto grave è che la sua diffusione su scala mondiale non fa altro che togliere risorse e sostegno a tutti quegli scienziati che invece si spendono per trovare delle cure vere e proprie. La Fivet blocca la ricerca seria sull’infertilità. Non c’è di che rallegrarsi, non c’è di che plaudire, non si capisce perché bisogna assegnare un Nobel.
Torniamo alle cifre iniziali. Sono spaventose. Parlano di una vera e propria ecatombe. Le può guardare con indifferenza solo chi si è abituato a considerare come un semplice grumo di materia un embrione umano. Ma chi considera la cosa senza le facili distorsioni ideologiche, non può non rabbrividire. Mettiamo a fuoco una situazione in particolare. Negli USA sono stati collocati in utero, solo nel 2007, 206.000 embrioni. Sono nati vivi solo 39.000 bambini, gemelli inclusi. 167.000 embrioni non ce l’hanno fatta. Ad essi bisogna aggiungere il numero di quelli che non sono stati trasferiti in utero perché “non idonei” (è la cosiddetta selezione embrionaria, che altro non è che una pratica eugenetica) o soprannumerari. Oltre ai gravi problemi etici connessi a questi dati, c’è una considerazione di base: la procreazione artificiale è un fallimento scientifico, data la bassa percentuale di successo (la media parla di 10-12 successi su 100 tentativi).
Dunque, sterminio, distruzione, o addirittura congelamento di embrioni; basse percentuali di successo (il 36% delle pazienti abbandona dopo un tentativo fallito di fecondazione in vitro, per non sottoporsi di nuovo allo stress che questa tecnica comporta); riduzione della vita umana a materiale da laboratorio; diffusione di una mentalità eugenetica; diffusione della mentalità del “diritto al figlio”, della pretesa di poterlo chiedere ed ottenere dalla tecno scienza; intralcio alle ricerche scientifiche sulla cura dell’infertilità. Non male come elenco di conseguenze della scoperta del nuovo premio Nobel per la medicina! Ad esse aggiungiamo fenomeni aberranti, come le mamme-nonne, il business dell’utero in affitto, il business degli ovuli (donne pagate fino a tremila euro per cicli disumani di donazione di ovuli), l’aumento dei parti plurimi e della prematurità.
In più c’è un dato inquietante: c’è un aumento del 30-40% nell’incidenza di malformazioni congenite dopo la Fivet. Il rischio è tale che, per esempio, nel Regno Unito l’autorità inglese che sovrintende alla fecondazione assistita impone per legge l’obbligo d’informazione alle coppie sulle possibili conseguenze di questa tecnica.
A fronte di tutto ciò (e scusate se è poco), suonano davvero stonati i peana cantati dagli intellettuali nostrani sui giornali di tutti i colori, di tutti gli schieramenti. Uno su tutti, a titolo esemplificativo. Edoardo Boncinelli sul Corriere della sera ha affermato che “la tecnica ci ha reso più liberi”. Ovviamente, poi, è stata una gara ad insultare e criticare la Chiesa per avere espresso dubbi (fondati e logici, come si è visto) su questo Nobel. Qui qualcuno si è gasato, ha dato il meglio di sé, come Miriam Mafai su Repubblica (e dove, sennò?): “Si chiudano dunque i laboratori. Dietro ogni scienziato chino sulle sue provette è riconoscibile il Maligno. In particolare quando lo scienziato si permette di indagare su quello che per millenni è stato un mistero imperscrutabile, il mistero della procreazione”. Tanta retorica, poca serietà ed onestà di giudizio. Nessuna capacità di confrontarsi con i dati scientifici e con i problemi reali.
Sul Nobel ad Edwards restano tutti i dubbi. Sul modo in cui è stata diffusa la notizia, resta il rammarico di un’informazione lacunosa e sbilanciata. Potenza della tecno scienza alleata al business e ai grandi centri del Potere mondiale.

(Fonte: Gianluca Zappa, la Cittadella, 8 ottobre 2010)

Il Papa chiede a Fisichella di trovare nuovi cristiani

«Ubicumque et semper», cioè «sempre e dovunque»: è questo il titolo del motu proprio di Benedetto XVI che istituisce il Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, affidato alla guida dell’arcivescovo Rino Fisichella. Il documento, atteso da tempo, sarà pubblicato martedì e presentato ai giornalisti nella Sala stampa della Santa Sede.
«Sempre e dovunque» la Chiesa ha fatto dell’evangelizzazione il suo «compito primario», si legge nel motu proprio, che contiene una significativa novità rispetto a quanto previsto. Come si ricorderà, nel momento in cui venne annunciata l’intenzione di creare il nuovo dicastero, venne spiegato che sarebbe stato competente soltanto sui Paesi di antica evangelizzazione oggi caratterizzati dal fenomeno della secolarizzazione. Invece, anche se Benedetto XVI, nel testo, sottolineerà che l’azione del Pontificio consiglio s’indirizza in modo particolare a queste zone, la competenza del dicastero di Fisichella non avrà confini e si estenderà su tutta la Chiesa. A motivare questa decisione, apprende il Giornale, è stato uno dei compiti principali che Ratzinger ha voluto affidare al nuovo organismo: quello di far meglio conoscere e assimilare il Catechismo della Chiesa cattolica. Un compito che non può essere ristretto solo al mondo occidentale.
Nel tempo trascorso dall’annuncio del Pontefice, in giugno, all’effettiva istituzione che avverrà martedì con la pubblicazione del documento papale, si è svolto un lungo e non sempre facile lavoro nei sacri palazzi. Costituire un nuovo dicastero e stabilirne il ruolo, infatti, non è stato semplice, dato che si sarebbero andate a toccare competenze di altri organismi, come ad esempio la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, la Congregazione per l’educazione cattolica e il Pontificio consiglio per la cultura. Il motu proprio, un testo relativamente breve, di poche pagine, è stato limato fino all’ultimo dal Pontificio consiglio per i testi legislativi e non contiene organigrammi. I locali del dicastero per la nuova evangelizzazione sono stati predisposti durante l’estate all’inizio di via della Conciliazione. Lo scorso 19 settembre, nel discorso tenuto ai vescovi britannici a Birmingham, Benedetto XVI aveva detto: «Mentre annunciate la venuta del Regno, con le sue promesse di speranza per i poveri ed i bisognosi, fate di tutto per presentare nella sua interezza il messaggio vivificante del Vangelo, compresi quegli elementi che sfidano le diffuse convinzioni della cultura odierna. Come sapete, è stato di recente costituito un Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione dei Paesi di lunga tradizione cristiana, e desidero incoraggiarvi ad avvalervi dei suoi servigi per affrontare i compiti che vi stanno innanzi». Il dicastero affidato a Fisichella, rappresenta una delle novità più significative del pontificato ratzingeriano.

(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 10 ottobre 2010)

sabato 9 ottobre 2010

Pitesti: l’inferno dei cristiani nella Romania comunista

Ogni anno, puntualmente, si sente dire, da capi di Stato e di governo, politici e storici la frase: “Mai più Auschwitz!”. Accade solitamente a ridosso della settimana della memoria, quando si commemora il genocidio ebraico avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale.
Auschwitz è diventata così una parola che rimanda di per sé al male assoluto, a quanto di più terribile sia mai esistito: continuamente film, mostre e libri perpetuano il ricordo di quanto avvenuto allora. Eppure, per quanto incredibile possa sembrare, è esistito un luogo ben peggiore di Auschwitz. Si chiama Pitesti e si trova nel Sud della Romania, 130 km a nord di Bucarest.
Qui, tra il 1949 e il 1952, è stato condotto il più orrendo esperimento concentrazionario del dopoguerra. Gli oppositori del regime comunista (principalmente studenti universitari, liberali, conservatori e cristiani di tutte le confessioni) furono condotti in questo carcere speciale con l’obiettivo di rieducarli, di farne degli “uomini nuovi”, come sosteneva il segretario generale del Partito comunista, la stalinista Ana Pauker (1893-1960). È quanto racconta il giornalista del “Corriere della Sera” Dario Fertilio in un libro-testimonianza uscito da poco nelle librerie, che non mancherà di far discutere (Dario Fertilio, Musica per lupi. Il racconto del più terribile atto carcerario nella Romania del dopoguerra, Marsilio, pp. 172, euro 15,00).
Quello che accadde a Pitesti in quegli anni, secondo Fertilio, rappresenta «qualcosa di imparagonabile e unico nella storia del Novecento: non l’annientamento ideologico e biologico come ad Auschwitz; non lo sterminio pratico e di massa come nei gulag sovietici e neppure la rieducazione forzata e spietata come in Vietnam o Cambogia.
Si tratta piuttosto di una tortura ininterrotta, attuata di giorno e di notte secondo regole precise, e concepita come un fine in se stesso». Non a caso lo stesso Aleksandr Solzencyn, che pure era passato per i gulag sovietici, arrivò a definire Pitesti «il più terribile atto di barbarie del mondo moderno». È difficile raccontare gli episodi descritti restando dei semplici cronisti: i prigionieri venivano condotti prima in isolamento completo, poi spinti a tradire i propri cari e i propri amici raccontando tutto il loro passato, quindi, se si rifiutavano, costretti a subire torture di ogni tipo che avevano l’obiettivo di avvicinare la povera vittima alla morte fermandosi però appena un attimo prima, facendo in modo che – se possibile – restasse viva ma in realtà desiderasse morire. Il tutto veniva raggiunto con la collaborazione degli stessi compagni di prigionia che erano già passati a servire i diktat dei capi designati del campo di concentramento, come Eugen Turcanu, un uomo che da alcuni sopravvissuti è stato descritto come l’incarnazione di Lucifero e i cui crimini furono talmente aberranti da costringere lo stesso regime stalinista a giustiziarlo. L’aspetto anticristiano del “sistema-Pitesti” peraltro, non è marginale per comprendere l’essenza del comunismo rumeno. Turcanu si preoccupava anzitutto di distruggere i sentimenti di pietà e di carità che i credenti rinchiusi a Pitesti cercavano con tutte le forze di conservare.
Come egli stesso disse, era imperativo distruggere le anime delle persone, perché chi pensa di avere un'anima è già un “malato”, nemico del popolo, da rieducare e, se proprio si rifiuta, da giustiziare usando le torture più diaboliche, sia fisiche che psichiche. I ragazzi più giovani (specialmente seminaristi e religiosi) venivano così costretti a subire atti contro la propria volontà, in particolar modo sessuali, e obbligati a torturarsi a vicenda. Il cattolico doveva essere “rieducato” con un uso pressoché settimanale di orge omosessuali e atti blasfemi (come giaculatorie evocanti satana e parodie dissacratorie dei Sacramenti facendo uso di escrementi e spazzatura), amplificate ancor di più in corrispondenza delle principali feste dell’anno come Natale e Pasqua. «Guarderemo Dio dall’alto in basso!» dicevano Turcanu e gli altri capi, invitando i credenti che non volevano arrendersi a bestemmiare il più possibile.
In questo inferno entrarono tutti, senza limiti di età: il più anziano che si conosca, un ex ministro, vi entrò a 94 anni. Dei bambini vi entrarono dopo aver compiuto il primo anno di età. Non sorprende che uno dei pochissimi sopravvissuti, il sacerdote Roman Braga, abbia descritto la sua esperienza in questi termini: «Penso che non ci sia nessuna mente al di fuori di quella di Lucifero capace di inventare il “Sistema Pitesti” che teneva sospesi tra la follia e la realtà, tra l’essere e il non essere, con l’idea ossessiva di poter scomparire o, peggio ancora, di dover ricadere sotto il Terrore delle torture».

(Fonte: Corrispondenza Romana n.1158 del 18 settembre 2010)

venerdì 8 ottobre 2010

E la chiamano medicina!

Può sembrare irriguardoso ricordare che la tecnica di fecondazione umana in vitro, che ha guadagnato al pioniere britannico Robert Edwards la punizione del Nobel per la Medicina, altro non era che il perfezionamento di un procedimento veterinario già largamente usato su conigli e mucche. I corifei della provetta, che ieri hanno celebrato il loro festival della banalità e della menzogna (la Fiv non guarisce affatto la sterilità. La aggira in un numero tuttora modesto di casi, visto che, a trentadue anni dalla nascita della prima bambina concepita in vitro, la percentuale di successo delle tecniche non si schioda dal trenta per cento), glissano sulle illusioni, le mitologie, i sogni di padroneggiare i meccanismi della creazione che rappresentano la vera “ragione sociale” di quelle tecniche.
Il big bang antropologico inaugurato da Edwards è quello che oggi ci fa parlare di “prodotto del concepimento” e non di figlio. E’ l’idea della “creazione” della vita in laboratorio, materiale biologico tra gli altri; è la separazione della procreazione dal sesso, dopo che il sesso era stato separato dalla procreazione con la contraccezione; è il cambiamento nel modo di rappresentare la generazione, i rapporti di parentela, il venire al mondo. Dalle provette di Edwards sono uscite le anticipazioni di quel Mondo Nuovo alla Huxley che oggi vive lautamente di compravendita di ovociti, di uteri in affitto, di fabbricazione di embrioni umani a fini di ricerca, magari ibridati con embrioni animali, di invenzione di coppie di genitori dello stesso sesso, di embrioni sovrannumerari conservati nell’azoto liquido e poi distrutti, o selezionati in provetta per ottenere un figlio dal corredo genetico “ottimale”. E la chiamano anche medicina.

(Fonte: © - Foglio Quotidiano, 5 ottobre 2010)

giovedì 7 ottobre 2010

La sai l’ultima sugli ebrei?

Un padre sta morendo: «Cari figli, siccome non sopporto che di noi ebrei si dica che siamo sempre attaccati ai soldi, vi prego di mettere 1000 dollari ciascuno nella mia bara». I tre figli sono perplessi ma si adeguano: il primo mette 1000 dollari nel feretro, il secondo fa altrettanto. Il terzo invece fa un assegno da 3000 dollari, lo mette nella bara e prende il resto di 2000... Chissà se Daniel Vogelmann accetterà che questa barzelletta – che rischia di essere antisemita – sia pubblicata sul quotidiano cattolico... E poi proprio nei giorni in cui sono nell’aria gli echi di polemiche politiche partite proprio da certe dichiarazioni antiebraiche e da certe storielline inopportune. In ogni caso lui l’ha inserita tra Le mie migliori barzellette ebraiche (pp. 66, euro 6), edite in un libretto della casa fiorentina Giuntina, di cui è editore editoriale. Vogelmann lo presenterà il 13 ottobre nel capoluogo toscano con Moni Ovadia e il giorno precedente sarà al Festival nazionale di Letteratura ebraica di Roma per un «dialogo sull’umorismo» con Bruno Gambarotta ed Enrico Vanzina. Ah, dimenticavo: Daniel Vogelmann è ebreo...
Fin dalla prefazione lei ammette che «le barzellette ebraiche dovrebbero essere raccontate solo dagli ebrei» perché altrimenti rischiano di diventare subito antisemite. Non è un bell’inizio...
«Ma è così. E credo che si tratti di un dato storico sicuramente accentuatosi dopo la Shoah; prima circolavano libretti di barzellette decisamente antisemite – non so se compilati da ebrei, ma non credo –, però non sembrava una cosa tanto grave. Dopo la Shoah invece non è più permesso, perché ormai noi ebrei sappiamo che quell’irrisione e tutto il resto hanno portato allo sterminio. Pensi comunque che alcuni amici ebrei si sono irritati anche per il mio libretto».
Ma lei è d’accordo con questa sorta di «riserva ebraica» sull’umorismo?
«Sì. Noi raccontiamo le storielle che ci riguardano con un certo spirito, siamo certi cioè di non avere secondi fini se non quello di sorridere su noi stessi e sdrammatizzare; ma gli altri che intenti avranno? Noi ovviamente ai pregiudizi sugli ebrei da barzelletta (avari, furbi, ipocriti, brutti...) non ci crediamo, invece il non ebreo potrebbe crederci davvero. Chi racconta le barzellette sui carabinieri in genere non li odia; però se lo fa un brigatista... ».
Quando e dove nasce l’umorismo ebraico?
«Istintivamente mi verrebbe da dire nella Bibbia, ma poi bisognerebbe trovare le citazioni adatte».
Troviamole. A me sembra piuttosto che il Primo Testamento ci presenti un Dio terribile, severo, a volte persino vendicativo...
«Ovviamente c’è anche quello. Ma nella Bibbia non manca il Dio che ride, e ci sono uomini che discutono con lui: il che è quasi una forma di umorismo per dei rigidi monoteisti come noi. Basta pensare ad Abramo che discute per salvare Sodoma e Gomorra cercando di "imbrogliare" Dio. Certo, la Bibbia è soprattutto drammatica. Però il popolo ebraico e i rabbini stessi cercavano di insegnarla sorridendo. Poi ovviamente il famoso umorismo yiddish è una cosa più recente, nata nelle comunità ebraiche dell’Europa dell’Est».
Il riso come antidoto all’esilio e alla sofferenza di sentirsi sempre «minoranza», si dice.
«Una reazione alle persecuzioni, ai pregiudizi, insomma al destino ebraico. Un tentativo di sdrammatizzare: ridere per non piangere. O anche di far propri e superare gli stereotipi con cui si viene giudicati dal mondo esterno e che si sentono ingiusti».
La solita teoria che l’umorismo nasce dalla tragedia; e proprio per questo i cattolici ne avrebbero poco, in quanto possiedono troppe certezze... Un po’ banale, no?
«Tuttavia c’è del vero. Chi crede alla resurrezione finale dovrebbe avere un tale ottimismo di fondo che l’ironia è impossibile, o inutile... Invece noi di dubbi sulla resurrezione dei corpi ne abbiamo molti, anzi nella Bibbia c’è scritto chiaro e tondo che torneremo in polvere. Dunque...».
Però credete nell’arrivo del Messia, quindi a un «lieto fine» della storia.
«Kafka diceva che il Messia verrà comunque troppo tardi, alla fine dei giorni, e sarà inutile. Noi ebrei cominciamo a crederci poco, all’arrivo del Messia».
L’umorismo dipende dunque da come si vede Dio?
«È probabile. Ma anche da come si vedono la morte, la vita, il mistero in generale. Per noi ebrei l’inconoscibilità stessa di Dio è uno stimolo a riderci sopra, rischiando anche un po’ la blasfemia: costituisce uno dei tanti modi per avvicinarsi al mistero ed esplorarlo nei suoi lati oscuri. Dunque in un certo senso ridere è un atto di fede. La cosa più pericolosa è l’ateismo: parlare di Dio, e riderne, è sempre meglio dell’indifferenza».
C’è nell’umorismo ebraico anche una sorta di autoironia di fronte alla propria superiorità di popolo «eletto»?
«Se è per questo, ricordo una battuta: "Ti ringrazio, Signore, di averci fatto tuo popolo eletto. Però, per favore, per qualche migliaio di anni prenditi un altro popolo...». Storicamente infatti siamo "eletti" soprattutto al martirio. Però può essere: c’è chi ci considera con sarcasmo o invidia, e gli ebrei stanno al gioco autoironizzando».
E se gli ebrei amassero raccontare barzellette solo perché amano raccontare «tout court»?
«Certo! Agli ebrei piace narrare storie e la barzelletta è in fondo una storia più breve. Lo sa che spesso le barzellette ebraiche ricordano quelle napoletane? Perché gli ebrei dell’Europa orientale non avevano il sole di certi quartieri partenopei, però lo spirito è il medesimo dei vicoli di Posillipo. Persino i due linguaggi, nella loro intraducibilità, sono simili».
L’ebraismo è una religione allegra?
«"L’ebreo è fatto per la gioia e la gioia è fatta per l’ebreo", diceva Freud (sul quale d’altra parte circola la celebre battuta: "Gli altri ci hanno sempre fatto soffrire, ma noi ebrei ci siamo vendicati diffondendo la psicoanalisi...»). Le Capanne sono una festa allegrissima, la Pasqua non ne parliamo, come pure la festa delle Settimane... Poi esiste il versante serio, naturalmente: sulla Torah c’è poco da ridere, soprattutto ad osservarla. L’ebraismo è un universo dove ci sta tutto, ma senza dubbio pure l’allegria. Per non parlare poi dello chassidismo, dove la gioia è addirittura un principio fondante e la malinconia viene considerata un gravissimo peccato».
E l’umorismo delle altre religioni, come lo vede?
«Sicuramente ci saranno barzellette anche nelle altre fedi. Però l’islamismo ride poco: non ce lo vedo Benladen a raccontare barzellette. Anche il cristianesimo è troppo serio. L’ebraismo costituisce un’eccezione, penso».
Tuttavia alcune barzellette ebraiche in realtà sono intercambiabili: si può mettervi a protagonista un genovese, uno scozzese o un carabiniere e il risultato è lo stesso.
«Alcune sono adattabili, non c’è dubbio. Molte però puntano su pregiudizi specificamente anti-ebraici. Altre invece sono storielline classiche, per comprendere le quali occorre avere una certa conoscenza della cultura ebraica. Non bisogna dimenticare infine che i grandi scrittori yiddish hanno molto influenzato i comici americani: Woody Allen insegna. Dunque l’eredità del nostro umorismo è scesa in profondità nella cultura occidentale».

(Fonte: Roberto Beretta, Avvenire, 7 ottobre 2010)

Questo è quanto pubblicato su Avvenire. Ora, non vi sembra che tutta la bufera sollevata dai personaggi più in vista della politica italiana per una barzelletta del premier, oltrettutto detta in privato, sia soltanto un pretesto idiota per fare chiasso e creare sconcerto nella popolazione?
A volte i signori politici prima di parlare dovrebbero farsi i gargarismi con la varecchina.
Chissà che oltre alle loro gole anche la coscienza non diventi candida? Mah! Sarebbe ora di smetterla di fare unicamente le cassandre, profetizzando soltanto sciagure; sarebbe ora, signori miei, che ve li meritaste veramente quei pingui onorari che, tutti indistintamente, incassate disinvoltamente ogni santo mese! Che ne dite?

mercoledì 6 ottobre 2010

Omofobia: l'opinione del prof. Meluzzi, psichiatra

Professor Meluzzi, che cosa pensa del termine omofobia?
"Che oggi se ne fa un uso distorto e non coerente con la vera radice della parola, esiste davvero una grande confusione figlia di ignoranza, tendenziosità e spesso di speculazione. Esiste chi vi marcia sopra".
Insomma che cosa vuole dire omofobia?
"La omofobia in senso medico é una patologia ovvero una fobia che alcune persone hanno di credersi in modo ossessivo latentemente omosessuali, ma questo non implica alcuna manifestazione di odio o aggressiva verso gli altri. Insomma chi picchia un gay o scrive cose astiose non é un omofobo, specie se si limita a ribadire la posizione della chiesa cattolica che notoriamente é contraria alla omosessualità".
Che cosa pensa della legge sulla omofobia?
"Una colossale sciocchezza, idiota, piramidale figlia solo di mode e di momenti, magari di convenienze politiche. Se la omofobia é un disturbo della personalità ovvero una patologia di poche persone, ma non violenta, fare una legge specifica significa elaborare una legge che dichiari fuori legge una malattia e siamo all'assurdo. Il vero omofobo ha bisogno di cura e non di carcere. Ma lo ripeto chi picchia é un delinquente comune, non omofobo".
Che cosa pensa delle effusioni di gay in pubblico?
"Sono inopportune perché possono turbare il sentimento di persone che la pensano diversamente. Tuttavia io sono contrario ad ogni manifestazione eccentrica ed esagerata che possa contrastare con il senso comune, ovvero anche esagerazioni etero nella via, chi defeca in pubblico, o chi urina o gioca al dottore. Insomma, chi picchia i gay é un mascalzone, ma queste reazioni estreme a volte sono scatenate da una violazione fuorviante del senso comune".

(Fonte: Bruno Volpe da Pontifex 27 settembre 2010)

Bibbia: che dire della nuova traduzione della CEI?

Col passare del tempo, si riesce a conoscere meglio la nuova traduzione CEI della Bibbia (2008) e quindi ad apprezzarne i pregi e a scoprirne i difetti.
Per esempio, nella parabola del ricco “epulone”, ho notato con piacere lo sforzo di tradurre piú letteralmente la frase «ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe» (Lc 16:21), nonostante che tale traduzione renda piú difficile la comprensione del testo rispetto al precedente «perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe». Non ho capito invece perché si sia abbandonata la vecchia traduzione letterale «fu portato dagli angeli nel seno di Abramo» (16:22), per sostituirla con «fu portato dagli angeli accanto ad Abramo». Se il criterio è quello della fedeltà al testo originale, si poteva conservare la vecchia traduzione. Capisco che già precedentemente era stata usata la traduzione piú libera nel versetto successivo (16:23), creando in tal modo una disomogeneità; ma per lo meno in uno dei due passi era stata conservata l’espressione originale, che ora invece è scomparsa del tutto. Il problema è che, con queste traduzioni “a senso” si rischia di non cogliere i riferimenti ad altri passi dove viene usata la medesima espressione: si parla di “seno” infatti anche in Gv 1:18 (il Figlio unigenito che «è nel seno del Padre») e in Gv 13:23 (il discepolo che Gesú amava «era coricato sul seno di Gesú»).
Un’altra tendenza che trovo nella nuova traduzione, e che non condivido, è quella di preferire all’interpretazione tradizionale (solitamente basata sulla versione greca dei LXX), la traduzione dal testo masoretico, quasi che questo si identifichi col testo originale della Bibbia, mentre si tratta di una codificazione avvenuta solo in epoca cristiana (al contrario della LXX, che già esisteva al tempo di Gesú). Due esempi tratti dai salmi.
L’inizio del Sal 64 (65). La precedente traduzione suonava: «A te si deve lode, o Dio, in Sion» (in latino: «Te decet hymnus, Deus, in Sion»). Ora leggiamo: «Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion»). Non nego che si tratti di una traduzione suggestiva, ma che si fonda esclusivamente sulla lettura masoretica della parola ebraica dmyyh. I masoreti (che aggiunsero le vocali al testo ebraico puramente consonantico) lessero dummiyyah (= “silenzio”), mentre i LXX (precedenti — ripeto — rispetto ai masoreti) lessero dommiyyah (= “conviene”, “si addice”). Le antiche versioni latine tradussero il greco prepei con decet. Era proprio il caso di abbandonare una tradizione cosí antica per adottare la incertissima e discutibilissima lettura masoretica?
Un altro esempio tratto dalla liturgia dei Santi Arcangeli: molti testi liturgici attingono al Sal 137 (138): «A te voglio cantare davanti agli angeli» (in latino: «In conspectu angelorum psallam tibi»). Che cosa troviamo nella nuova traduzione? «Non agli dèi, ma a te voglio cantare». Degli angeli non c’è piú traccia. È vero che nel testo ebraico troviamo ’elohim, che significa appunto “dèi”; ma i LXX avevano tradotto quell’espressione con “angeli”. Avranno avuto i loro motivi. Perché, anche in questo caso, si è preferita un’apparente fedeltà al testo ebraico, abbandonando l’interpretazione tradizionale, non solo cristiana, ma degli ebrei stessi?
I traduttori si difendono mettendo avanti l’autorità di San Girolamo. Questi infatti nel primo caso (Sal 64:2) traduce: «Tibi silens laus, Deus, in Sion»; nel secondo (Sal 137:1): «In conspectu deorum cantabo tibi». È vero; ma si dimentica che la Chiesa non ha mai adottato per la sua preghiera il Salterio “iuxta Hebraeos” di San Girolamo, accontentandosi della sua revisione del Salterio “iuxta Septuaginta” (detto anche “Salterio gallicano”). Anzi, direi che tutti i salteri tradotti sul testo ebraico non hanno mai avuto grande fortuna nella Chiesa: basti pensare al salterio commissionato da Pio XII all’Istituto Biblico negli anni Quaranta e che fu utilizzato solo per un breve periodo nella liturgia (nonostante tale traduzione fosse stata condotta sul testo ebraico, nei due casi accennati conservava il testo latino tradizionale).
Anche la Neovolgata, che pure ha corretto in molti punti il testo del “Salterio gallicano” (senza con ciò adottare il Salterio ieronimiano “iuxta Hebraeos”), nei due casi presi in esame è rimasta, essa pure, fedele alla traduzione tradizionale: «Te decet hymnus, Deus, in Sion»; «In conspectu angelorum psallam tibi». Ora, chiedo: ma l’istruzione Liturgiam authenticam (28 marzo 2001) non aveva stabilito che le traduzioni per l’uso liturgico (quale è la nuova versione della CEI), pur condotte sui “testi originali” avrebbero dovuto avere come punto di riferimento la Neovolgata (nn. 34-45)? Come mai è stata concessa alla nuova versione CEI la recognitio, nonostante non sia stato rispettato tale criterio?

(Fonte: Querculanus, Senza peli sulla lingua, 29 settembre 2010)