lunedì 5 dicembre 2011

«Mio fratello Troisi e la mano di Dio»

Ancora oggi, a 17 anni dalla sua scomparsa, “non ci resta che piangere”, verrebbe da dire parafrasando un suo indimenticabile film. Perché il vuoto lasciato dal grande Massimo Troisi, resta incolmabile nel mondo dello spettacolo italiano. Eppure la lezione dell’ultimo vero erede di Eduardo De Filippo e di Totò non può cadere nell’oblio.
Ecco perché la sorella dell’attore, Rosaria Troisi, insieme con Lilly Ippoliti, ha voluto aprire lo scrigno dei ricordi personali e riversarlo in un libro Oltre il respiro (Iacobelli, pp. 120, euro 25), in cofanetto con dieci incisioni di Rancho. Il risultato è un ritratto inedito, ricco di aneddoti divertenti, schietto più che agiografico, toccante e controcorrente. «Sono state dette cose non vere su Massimo – attacca subito la sorella Rosaria Troisi, oggi 66 enne -. Sono rimasta molto dispiaciuta perché dopo Il Postino, il suo ultimo film, chi gli è stato vicino in quel periodo ne ha fatto un ritratto che non ho condiviso affatto. L’hanno descritto come una persona depressa. È una bestialità. Le persone depresse si chiudono, non vogliono vivere. Lui invece ha sempre mantenuto accesa dentro di sé una luce, fino all’ultimo istante. Ha combattuto una battaglia contro un male che l’ha braccato per tutta la vita, minacciando il suo cuore, ma mai il suo spirito. A causa della sua salute fragile avrebbe dovuto essere il più debole della famiglia. E invece ha trovato nell’ironia l’arma per sfidare le difficoltà e amare la vita».
Massimo Troisi, morì nel giugno del 1994, nel sonno, dopo l’ennesimo problema cardiaco. Aveva solo 41 anni. Ma gli furono sufficienti per lasciare il segno. Ancora oggi è nell’olimpo dei più grandi per le nuove generazioni, secondo una curiosa classifica stilata dalla Federazione italiana psicologi sull’immaginario giovanile. E dire che la sua carriera cominciò quasi per caso al teatrino dell’oratorio di Sant’Anna a San Giorgio a Cremano (Napoli) dove era nato nel 1953. Lo costrinsero a sostituire uno degli attori in una farsa napoletana. «Per noi fu una sorpresa. Massimo era timidissimo – assicura la sorella – Ma quella sera scoprì di sentirsi a suo agio sul palcoscenico. E noi tutti capimmo che aveva davvero una marcia in più». Dal trio delle meraviglie, La Smorfia, con Lello Arena ed Enzo Decaro, co-mattatori di sketch esilaranti, fino a Il Postino, passando per film come Ricomincio da tre, Scusate il ritardo o Non ci resta che piangere con Roberto Benigni: è stata un’autentica cavalcata.
Un successo costruito tra le mura domestiche: «Abbiamo avuto il privilegio di vivere in una famiglia splendida – continua Rosaria Troisi – sebbene non si navigasse certo nell’oro. L’unione dei nostri genitori è stata la nostra forza. In fondo Massimo non ha frequentato nessuna accademia di recitazione, ma da attento osservatore scrutava tutti i personaggi della famiglia. In particolare il pittoresco nonno materno, Pasquale, che si dilungava a tavola nel raccontare le sue strepitose vicende in cui emergeva una classe da attore consumato. A quel punto scoppiava il finimondo, veniva fuori la vena ironica che ci appartiene e anche Massimo, che di solito era schivo e riservato come appare nei film, diventava irresistibile. Ricordo peraltro un suo primo mini-sketch a beneficio di noi familiari quando era ancora bambino: protestava con la Befana per aver ricevuto l’ennesimo trenino elettrico, regalo che le Ferrovie dello Stato facevano ogni anno a mio padre ferroviere. Massimo inscenò un monologo contro la Befana: “Ma chest è scema proprio? Ma io l’ho scritto accussì bell’: Voglio una bicicletta. E chella che ffà? M’porta n’atu treno? Chest s’è rimbambita!”».
E un’altra fucina di suoi personaggi fu la scuola. Come il compagno di classe Salvatore, il secchione, che riecheggia in “Ricomincio da tre”, quando Gaetano racconta del bambino prodigio, che “gli rovinò l’esistenza” per sentirsi messo sempre a confronto con lui. «Mio padre – racconta Rosaria Troisi – temeva che il teatro potesse distrarre Massimo dalla scuola. La sua carriera scolastica fu lenta e difficoltosa. Si era iscritto all’Istituto tecnico per geometri per restare vicino agli amici ma non era molto portato per quelle materie. Però un suo professore di lettere dirà anni dopo: “Non era lui che andava male a scuola. Era la scuola che andava male a lui. Era piccola, angusta, asfittica, con i suoi programmi e le sue convenzioni. La sua fantasia rompeva i muri, i vetri, le pareti di quell’ambiente. Lui si realizzava fuori».
Ma certo la sua esistenza fu condizionata dalla salute precaria: «Già a 12 anni – ricorda la sorella – fu colpito da una febbre reumatica che gli procurò un malfunzionamento della valvola aortica. Cominciò allora il nostro calvario. Mia madre soprattutto si dava una gran pena perché nel vederlo così debole pensava che tutte le strade gli sarebbero state precluse. Però sapeva lei per prima che Massimo aveva “a capa tosta”. E in effetti fu più forte di tutto, anche della scomparsa di mia madre, a cui era molto legato, quando lui non aveva ancora 18 anni. Anche per girare Il Postino, si rifiutò di interrompere il film per sottoporsi a un trapianto perché voleva farlo col suo cuore. Certo, aver vissuto sempre con la sensazione che la vita ti sfugga di mano non deve esser stato facile. Però in mio fratello ha prevalso fino all’ultimo la gratitudine per quel che la vita gli aveva riservato: il lavoro che amava, la possibilità di viaggiare, ecc,.».
Prima che uscisse il suo primo film del 1981, Ricomincio da tre, Troisi temeva che il pubblico settentrionale non riuscisse ad apprezzarlo per via del dialetto stretto. E invece il successo fu nazionale. «Lui è riuscito – spiega Rosaria Troisi – a smentire i pregiudizi sulla gente del sud. Ha mostrato un napoletano diverso dallo stereotipo del guappo o del camorrista. Ha fatto breccia con un napoletano inibito, goffo, timoroso di sbagliare e senza mai una risposta pronta. Con la fierezza di essere un uomo del Sud: “Io sono meridionale e nun aggia rà cunt a nisciuno…”. Ma senza vittimismi, senza piangersi addosso. Quando denunciava i problemi sociali, veniva fuori l’immagine di napoletano insoddisfatto, ma mai disperato».
Colpisce a distanza di anni quella comicità brillante che non ricorre mai al facile espediente della volgarità (che invece oggi abbonda). Si è guadagnato così le luci di un successo che non gli ha mai dato alla testa. Il segreto è ancora racchiuso in quella “casa umile ma onesta”, come avrebbe detto lui, da cui proveniva. «Massimo – spiega la sorella – diceva spesso che il successo è solo un amplificatore. Se eri imbecille prima di avere successo diventi imbecillissimo, se eri umano diventi umanissimo. Il successo è la lente d’ingrandimento per capire com’eri prima. Il valore aggiunto di Massimo era la mitezza. Lui non ha mai perso di vista gli sforzi enormi di mio padre per portare avanti con il suo unico lavoro una famiglia di sei figli, con quella rettitudine e quei principi sani che grazie a Dio crediamo di non aver smarrito. Siamo sempre stati una famiglia molto cattolica. Soprattutto mia madre».
Non è del resto un caso se nelle sue rappresentazioni abbondano i riferimenti del suo retroterra religioso. Come non ricordare della Smorfia: La Natività, La fine del mondo, Angelo e Diavolo, Il Dialogo Con Dio o San Gennaro... Sorride Rosaria Troisi: «A casa nostra i santi son stati sempre presenze vive. Venivano rispettati come amici di famiglia. Massimo era colpito dal fatto che mia madre pregava in continuazione san Giuseppe. Pensava che “stava in buoni rapporti” con lui… Proprio come dice nello sketch di san Gennaro…». In verità lo sketch della Natività andato in onda sulla Rai sollevò qualche protesta e l’accusa di vilipendio: «Lui ci rimase male – rivela la sorella -. Perché non c’era assolutamente nessun intento derisorio. Uno come san Gennaro era davvero uno zio o un nonno che giravano per casa. Massimo voleva semplicemente ritrarre in modo ironico la grande devozione di casa nostra. Mia madre era una che organizzava puntualmente il rosario con le vicine e anche in occasione delle tombolate “imponeva” che una parte delle vincite andasse a san Giuseppe per i poveri… A casa mia non era nemmeno contemplata la bestemmia. E noi siamo grati ai nostri genitori per questa educazione limpida. Io stesso tuttora vivo attivamente la parrocchia».
Una fede da cui Troisi non poteva non essere contagiato: «Lui aveva un suo modo di vivere la religione – spiega la sorella - Non era così assiduo come noi. Anche se era cresciuto con i padri Camilliani con i quali era stato coinvolto da ragazzo anche in una Via Crucis vivente (nel ruolo di Gesù). Eppure io sono testimone di quei momenti in cui l’ho visto trovare rifugio nella fede. Nel 93’ di ritorno da Houston (Usa) per il suo secondo intervento al cuore gli regalai una medaglietta con il volto della Vergine da cui non volle più separarsi. La teneva sempre con sé nel taschino del pigiama. E quando una volta non riusciva a trovarla fummo costretti ad andare in lavanderia per andare a recuperarla. Già anni prima, nel 1976 accadde un fatto di cui rimase sempre sorpreso. Dovevamo arrivare in fretta da uno specialista a Napoli e fummo bloccati nel traffico dalla processione della Madonna di Pompei. Quando ormai avevamo perso le speranze, apparve incredibilmente un tram che fu la nostra salvezza…».
C’è però un altro episodio che Rosaria Troisi ricorda commossa: «Quando tornammo dall’America io stessa non mi capacitavo di come Massimo fosse riuscito a superare l’intervento. E lui mi rispose: “È stata a man e Dio”. Compresi allora quanto aveva pregato. Sono convinta che una persona non può andarsene quando ha emesso l’ultimo respiro. Per questo mi son trovata a scrivere questo libro (i cui proventi saranno devoluti a favore dell’associazione Italia Solidale che si occupa di adozioni a distanza). Per trasmettere ai giovani questo messaggio: mio fratello aveva anche dei buoni motivi per disprezzare la vita e arrendersi di fronte alle debolezze. E invece è stato uno splendido esempio di come non bisogna mai farlo, perché non sai mai cosa la vita ti riserva. A volte penso davvero che la sua vita sia stata un miracolo».

(Fonte: Antonio Giuliano, La bussola quotidiana, 3 dicembre 2011)


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