venerdì 29 novembre 2013

Santa Maria Assunta di Praglia. Storia, arte, vita di un’abbazia benedettina

C’è una sorta di filo conduttore che si è dipanato per novecento anni nell’abbazia benedettina di Praglia (Padova) ai piedi dei Colli Euganei: il silenzio. Oggi, come nel 1107, perché qui, fra antichi chiostri e lunghi corridoi è ancora tempo di tacere, pregare, pensare alla propria anima, contemplare, nella comunione coi fratelli.
Uno spazio peraltro aperto anche alla gente: credenti e non credenti, dove, appunto, il silenzio rappresenta un recupero di valori (di modi di essere e di porsi): di fede in primis, ma poi anche di umanità. Alla ricerca di qualcosa, e/o di Qualcuno, se non altro di se stessi. Senza che quel silenzio debba impaurire, anzi.
Non aveva avvertito, del resto, una volta, don Giuseppe De Luca rivolgendosi al “problematico” Carlo Bo, di stare in chiesa in silenzio, magari anche senza pregare, ma in silenzio…
Ecco, è nella dimensione di questo atteggiamento che ci pare di poter sintetizzare il contenuto di un volume di ottocento pagine, che è poi la storia di quasi un millennio: una monografia articolata in ventinove saggi e quattro appendici, opera di paziente, approfondita ricerca di studiosi del mondo universitario e di quello ecclesiastico, a incominciare dall’abate di Santa Giustina (Padova) Francesco Trolese e dai benedettini di Praglia Mauro Maccarinelli (curatore con Chiara Ceschi e Paola Vettore Ferraro del libro) e Guglielmo Scannerini.
Questo volume in elegante veste tipografica e arricchito da immagini stupende, si presenta (ovviamente) con una completezza esemplare, anche perché questa realtà benedettina, nonostante varie traversie, è arrivata ai giorni nostri mantenendo una notevole vitalità – per così volerla chiamare.
Ecco allora che “Santa Maria Assunta di Praglia. Storia, arte, vita di un’abbazia benedettina”, sotto la direzione scientifica di Giordana Mariani Canova, Anna Maria Spiazzi e Francesco Trolese (Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia) rappresenta non soltanto un documento di quasi un millennio di storia e di vita, come detto, ma si propone quale elemento di riflessione per credenti e non credenti, quale fatto di cultura e di fede a un tempo, dunque.
Gli aspetti salienti di questa storia si possono riassumere nei seguenti momenti: la fondazione nel 1107 da parte della famiglia padovana dei Maltraversi che dotò l’abbazia di poderi; il passaggio, nel 1444 alla Congregazione Cassinese, con susseguente ampliamento del complesso edilizio-architettonico; le soppressioni: da parte di Napoleone prima (1810) e del Regno d’Italia poi (1867). In entrambi casi, comunque, l’abbazia non deperì, per così dire, e una presenza dei monaci nella zona restò a livello di assistenza pastorale alla popolazione. Il ritorno nei primi anni del Novecento, anche per l’interessamento di un “importante” amico, Antonio Fogazzaro, costituì un evento significativo, soprattutto per la popolazione e per quella salvaguardia della cultura, costante elemento nella storia dei benedettini. Non poche opere d’arte, fra l’altro, trovarono rifugio a Praglia durante il secondo conflitto mondiale.
In questi secoli di attività, di vita, la comunità religiosa ha mostrato di saper mantenere e trasmettere il messaggio del santo padre Benedetto, confermando l’importanza di uno spazio dove sono (ancora) possibili la preghiera, la meditazione, il confronto di una vita ci contemplazione nella realtà quotidiana – come sottolineato dall’abate Norberto Villa. “Tradizione, casa, scuola della comunione: così si presenta l’abbazia”, secondo il religioso, e questa “monografia rappresenta un messaggio di speranza, di bellezza, di gioia, di luce”.
Quasi a rincalzo, ecco l’abate presidente della Congregazione Benedettina Sublacense, padre Bruno Marin, nato e cresciuto e fattosi monaco proprio a Praglia, riferendosi al volume: “E’ un’opera come una ‘verbalizzazione’ della storia di Dio con noi:  monaci e popolo. Perché il monastero non è semplicemente la casa dei monaci, appunto, ma una realtà storica dinamica, il ‘cuore di Dio’, segno, simbolo del ‘cuore di Dio’ che ci chiama tutti alla fedeltà alla terra, alla storia”, oltre che alla fede, nella consapevolezza che qui, la realtà di oggi, come di ieri, è appunto comunione di fede…
Percorrendo gli antichi chiostri, immergendosi nei lunghi corridoi dove il tacere è (quasi) regola, pare poi di riudire le parole di un vecchio monaco scritte in un precedente volume (1985): “Il monastero nel concetto di San Benedetto è prima di tutto la casa di Dio, il luogo cioè dove Dio è il primo cercato, il primo servito, amato, pregato, cantato nelle lodi quotidiane. Il resto è subordinato e finalizzato a questa meta…”.
Ecco: Dio innanzitutto; il resto viene dopo. E, di questi tempi, è un richiamo di indubbia forza.
 

(Fonte: Giovanni Luganesi, Riscossa cristiana, 28 novembre 2013)

 

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