Il gay della canzone di Povia esiste davvero e non è uno qualsiasi. Ballerino a Miami, crocierista per il mondo, frequentatore degli ambienti dell’alta moda a Milano, organizzatore del Gay Pride di Napoli, Luca di Tolve era un attivista dell’Arcigay che si occupava di turismo gay. Un attivista omosessuale convinto, come dice di se stesso in un’intervista rilasciata a Tempi (11/09): “Convinto sì, credevo che quella fosse la mia condizione, irreversibile”. Ed ancora: “Ero un egocentrico, palestrato, schiavo dei locali notturni, ossessionato dai soldi, convinto di provare attrazione unicamente per i maschi e finito nel vortice del sesso compulsivo”. Ciò nonostante, come ormai da tempo è noto, Luca si è sposato con Teresa e sogna di poter avere da lei un figlio.
Questa storia vera, di vita vissuta, ha destato (chissà perché) scandalo e rabbiosa ostilità nella parte più politicizzata del mondo omosessuale italiano. La cosa lascia interdetti. Non è forse da quel mondo che ci giungono di solito le richieste più estreme in nome di un concetto assoluto di libertà personale? Luca di Tolve ha fatto una scelta diversa, non era forse libero di farla? Dell’omosessualità ha dato una lettura un poco differente da quella oggi a la page e maturata sulla propria stessa pelle, non era forse libero di intervenire su questo?
Sono fioccate invece le invettive e le accuse da parte dell’organizzazione di cui pure aveva fatto parte: hanno detto che era stato sottoposto ad un lavaggio del cervello; hanno tirato fuori il concetto equivoco di omofobia per screditare il suo punto di vista e zittirlo. Interpellato dal Giornale (10/08), Luca ha risposto: “Sono una persona in grado di intendere e di volere come lo ero quando ero un gay. La vera violenza è dire che è impossibile uscire dall'omosessualità”. Ed ancora: “Basta con questa accusa di omofobia. Chi discrimina è chi pensa che gay si nasca. La mia scelta ha richiesto coraggio, anche perché non ho dovuto lottare solamente contro le mie abitudini (…) ma rinunciare anche ai privilegi di una società in cui essere gay è trendy e ti serve a trovare un lavoro e a fare soldi più in fretta”.
Purtroppo la lunga consuetudine della più politicizzata associazione omosessuale italiana con i partiti di ispirazione comunista alimenta, evidentemente, delle reazioni violente in stile staliniano: si deve militare senza porsi (e porre) domande; l’omosessualità è condizione che non necessita di ulteriori analisi o approfondimenti; la verità è quella già scritta a lettere indelebili nei sacri testi del movimento e, come per le vecchie verità del marxismo-leninismo, ha pure la pretesa di essere “scientifica”. Peccato che per costoro scientifico sia diventato sinonimo di immobile, indiscutibile, dogmatico...
Ma contro le teorie si ribellano i fatti della vita, e Luca non è solo il personaggio di una canzone, ma uno che ci mette la faccia e paga un prezzo. Racconta infatti a Tempi: “I miei genitori si separarono quando ero piccolo, mio padre se ne andò di casa. Rimasi da solo con mia madre, in un ambiente solo femminile (…) mi sentivo molto rassicurato quando stavo con le donne e spaventato, anche se attratto, dalle figure maschili” Ed ancora: “Avevo tredici anni e nessun padre che mi spingesse a entrare nel ‘gruppo dei maschi’ da cui, invece, venivo respinto perché avevo interessi diversi, perché non ero dei loro, perché non giocavo a pallone come tutti. Questo mondo che pure mi attraeva, al tempo stesso mi spaventava, mi lasciava ai margini, solo. A quell’età questa mia infelicità e, al contempo, la necessità, come tutti, d’affetto, si manifestò in pulsioni omosessuali”.
Trascorsa l’adolescenza, Luca si integra perfettamente nella comunità gay e, da un certo punto di vista, diventa un personaggio di successo… ma allora perché, ad un certo punto, questo desiderio di tirarsene fuori? La risposta è nell’intervista rilasciata al Giornale: “Non ero felice e volevo capire il perché”. Come ciascuno di noi, Luca ricerca una verità e (perché no) una felicità che trascenda il piacere effimero. Non ne aveva forse il diritto? Non ne vale forse la pena? Ci vuole comunque del tempo per capire, racconta infatti: “Ci ho messo cinque anni per realizzare di avere sofferto dell’assenza di un padre, di aver idealizzato i maschi perché li sentivo più forti di me e per cominciare ad incuriosirmi dell’universo femminile”.
Quando Luca era gay era forte il desiderio di trovare un partner ideale, ma dopo i primi momenti di intensa attrazione fisica, dopo la consumazione del rapporto, percepiva che non restava nulla, solo un senso di vuoto che alimentava la notevole precarietà delle relazioni affettive e giustificava un elevato tasso di infedeltà. Le organizzazioni che credono di rappresentare l’universo omosessuale (e non semplicemente i propri iscritti) asseriscono che il frenetico nomadismo sentimentale dei gay è frutto dell’assenza di leggi specifiche sul matrimonio omosessuale… vendono con ciò l’illusione che la politica possa risolvere un problema che ha invece una ragione profondamente relazionale.
Luca non tarda a comprendere quali siano le vere cause della difficoltà a mantenere una relazione stabile e pienamente soddisfacente, lo racconta al Giornale: “Credevo di essere io lo sfortunato che non trovava mai l'anima gemella. Poi mi sono reso conto che attorno a me tutto era impostato in modo frivolo, superficiale, che ero circondato da persone infelici, molti delle quali ossessionate dalla pornografia e dal sesso. E poi la morte: l'ho vista consumarsi negli amici attorno a me e alla fine ho dovuto farci i conti anch'io dopo aver scoperto di essere sieropositivo”.
Sieropositivo… ad un certo punto l’HIV fa breccia nella vita di Luca e lui lo racconta con disarmante sincerità. Chissà quanti di quegli attivisti che si sentono in diritto di esercitar pressioni su altri cittadini perché “si dichiarino” sarebbero capaci di raccontar loro, con sincerità, una cosa come questa? Ma la malattia o la morte sono l’ultima parola per il “mondo”, non certo per il cristiano, e l’incontro con la sofferenza segna una svolta nella vita di Luca (una svolta di cui nemmeno Povia ci aveva mai parlato). Luca riconosce oggi che l’esperienza del dolore lo ha aiutato a non eludere quelle domande fondamentali ed insopprimibili che per tanti anni aveva trovato il modo di nascondere od esorcizzare: le domande sul senso ed il significato della vita.
Impressionante il punto di svolta. Caduto in uno stato di profonda depressione, trova appesa al contatore della luce della sua abitazione una coroncina del rosario. Luca, che si definiva buddista, si aggrappa al rosario con tutte le forze, ripensando al significato che questa preghiera aveva avuto in tempi lontani per i nonni e per sua madre. Racconta di essersi accasciato a terra improvvisamente, alla terza decina di Ave Maria, e di aver avvertito una profonda sensazione di pace. Racconta di aver percepito in quel momento la presenza della Madonna ed una serenità ed una forza interiore mai prima d’allora conosciuta.
Non si affretti a giudicare chi più è avvezzo a ripetere che “tutti siamo liberi e che nessuno deve giudicare”, questo è quanto è accaduto a Luca di Tolve, quanto racconta lui stesso. Vorrei anche dire che questa, in quanto storia di dolore, di ricerca, di conversione, è in verità la storia di ciascuno di noi e pertanto una storia che sfonda i muri dei nuovi ghetti gender-culturali con cui, anche per legge, si pretenderebbe oggi di riclassificare e compartimentare il genere umano (etero, omo, lesbo, trans e quant’altro). Siamo tutti e solo esseri umani, come la storia di Luca ci mostra.
(Fonte: Stefano, La Cittadella, 19 novembre 2010)
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