In merito alla colletta della Messa di Sant’Alberto Magno, Padre Augé, nel suo blog Liturgia Opus Trinitatis, faceva notare le differenze fra l’orazione del Messale del 1962 e quella presente nel Messale rinnovato. Può essere utile riportarle entrambe:
«Deus, qui beatum Albertum, Pontificem tuum atque Doctorem, in humana sapientia divinae fidei subjicienda magnum effecisti: da nobis, quaesumus, ita ejus magisterii inhaerere vestigiis, ut luce perfecta fruamur in caelis» (Messale 1962);
«Deus, qui beatum Albertum episcopum in humana sapientia cum divina fide componenda magnum effecisti, da nobis, quaesumus, ita eius magisterii inhaerere doctrinis, ut per scientiarum progressus ad profundiorem tui cognitionem et amorem perveniamus» (Messale 1970-2002).
Padre Augé si pone la domanda (è il titolo del post): “Continuità, discontinuità o progresso nella continuità?”. E nel post sembrerebbe optare per la discontinuità: «Ecco un caso tipico in cui i due Messali esprimono due teologie diverse, due “comprensioni” della fede diverse».
Che dietro i due testi ci siano diverse sensibilità, mi pare che non lo si possa negare. Vogliamo chiamare tali “sensibilità” «due teologie diverse, due “comprensioni” della fede diverse»? Non è un problema; lo si può fare tranquillamente. Ma questo significa che ci troviamo di fronte a un caso di “discontinuità”? Non lo credo: quando oggi parliamo di continuità e discontinuità non ci riferiamo tanto alle sensibilità, alle teologie o alle “comprensioni” della fede; ci riferiamo piuttosto alla sostanza della fede stessa. Le teologie possono variare, e di fatto variano, a seconda dei tempi e dei luoghi; esse sono necessariamente condizionate dalla cultura e dalla sensibilità proprie di ciascuna epoca e di ciascun popolo. Ciò che invece non deve mutare è il depositum fidei.
Bene, nella fattispecie, c’è stato un mutamento dottrinale? Direi proprio di no. Nel Messale preconciliare si diceva che Sant’Alberto divenne grande (“Magno”) nel sottomettere la sapienza umana alla fede divina; nel Messale attuale si afferma invece che egli divenne grande nel comporre (= mettere insieme) quelle due virtú. C’è contraddizione fra i due modi di esprimersi? Non mi sembra. Fra i due verbi, ce n’è uno giusto e uno sbagliato? Non direi; entrambi sono corretti. Quale è meglio usare? A questo punto entrano in gioco le diverse sensibilità: un tempo si preferiva affermare — correttamente — che la ragione deve sottomettersi alla fede; oggi si preferisce dire — altrettanto correttamente — che ragione e fede devono armonizzarsi fra loro. Ecco, ho l’impressione che questo caso specifico ci faccia capire molto bene che cosa ha realmente fatto il Concilio Vaticano II: lasciando immutata la dottrina, ha mutato il linguaggio, dal momento che nel frattempo era mutata la sensibilità dell’uomo contemporaneo. Un’operazione, dunque, esclusivamente pastorale.
Che cosa rispondere dunque alla domanda: “Continuità, discontinuità o progresso nella continuità?”. Non so se in questo caso si possa parlare di reale progresso nella continuità. Forse si tratta, molto piú semplicemente, di continuità nell’apparente discontinuità
(Fonte: P. Giovanni Scalese, Blog “Senza peli sulla lingua”, 16 novembre 2010)
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