venerdì 24 dicembre 2010

Ancora sul Vaticano II: pastorale o dottrinale? Rottura o continuità col passato?

Circa la questione della continuità dei testi conciliari col Magistero precedente della Chiesa, è importante distinguere, come fanno i Papi del postconcilio, negli insegnamenti conciliari un aspetto pastorale da un aspetto dottrinale.
L’idea diffusa che il Vaticano II sia un Concilio solo pastorale è un pregiudizio che denota insufficiente informazione sia dei testi stessi del Concilio come delle spiegazioni che di questi testi sono state date dal successivo Magistero della Chiesa, è una tesi che fa comodo ai modernisti, i quali relativizzano il fatto dottrinale riducendo tutto a "pastorale", cioè a modernismo e fa comodo anche ai lefevriani per aver modo di sottrarsi al dovere di accettare le dottrine conciliari con la scusa che in pastorale la chiesa può sbagliare.
Bisogna dire invece che l’aspetto pastorale del Concilio riguarda il suo intento di recuperare i valori della modernità e di comunicare all’uomo moderno il messaggio evangelico usando un linguaggio adatto ai nostri tempi e comprensibile dall’uomo d’oggi, suggerendo linee di azione e di attività pastorale.
Ma l’insegnamento conciliare non si limita a ciò. Il Concilio, oltre a confermare molti punti di dottrina cattolica, propone su molti punti, come hanno più volte ripetuto i Papi del postconcilio, una più avanzata conoscenza della divina rivelazione, o in modo diretto e immediato o in forma indiretta e mediata.
Il testo conciliare, nella prima parte della famosa "nota previa" al Segretario del Concilio Mons.Pericle Felici, dice bensì che il Concilio non intende proporre esplicitamente nuove definizioni dogmatiche; ma questo non toglie che di fatto, come lascia intendere chiaramente la seconda parte della "nota" e come di fatto è avvenuto - basta per accorgersene un’attenta lettura dei testi col dovuto criterio teologico – il Concilio contenga pronunciati dottrinali in materia di fede o prossima alla fede, sviluppando dottrine precedentemente definite, come per esempio quando definisce l’essenza della Chiesa, della collegialità episcopale, della divina rivelazione, della sacra tradizione o dell’ecumenismo o della libertà religiosa.
Stando così le cose e tornando al problema della continuità, bisogna distinguere il riferimento ai documenti pastorali da quello ai documenti dottrinali. Quando il Papa ci ha ricordato la "continuità nella riforma" fra il Vaticano II e il precedente Magistero, evidentemente si è riferito agli insegnamenti dottrinali e li suppone, giacchè non è pensabile per un cattolico che un Concilio smentisca nella dottrina della fede o prossima alla fede quanto ha detto il Magistero precedente, perché ciò supporrebbe la convinzione ereticale che Cristo, quando ha promesso alla sua Chiesa di assisterla fino alla fine del mondo affinchè non venga meno nella verità, ci ha ingannati.
Indubbiamente la continuità dottrinale va intesa bene. Essa non si limita al fatto di ripetere sempre le stesse formule dogmatiche - è utile anche questo: si pensi solo alla continua ripetizione del Credo che noi cattolici facciamo in ogni Messa domenicale -, ma essa, senza venir meno come continuità, comporta nel contempo uno sviluppo o un progresso nella conoscenza di quelle medesime immutabili verità che Cristo ha consegnato alla sua Chiesa da trasmettere agli uomini (ecco la Tradizione) fino alla fine dei secoli.
Se invece facciamo riferimento agli insegnamenti pastorali del concilio, in questo campo il Magistero non è infallibile, per cui non è proibito al cattolico ben preparato avanzare delle prudenti riserve per non dire critiche a certi indirizzi o modalità di comportamento o di linguaggio pastorale proposti dal Concilio. Io stesso come molti altri cattolici, mentre accolgo con assoluta adesione gli insegnamenti dottrinali, mi sento di dover avanzare delle rispettose critiche a certi orientamenti pastorali, i quali, dopo un’esperienza di quarant’anni, hanno dato prova di ottenere cattivi risultati e sono certamente una delle cause dell’attuale crisi della Chiesa. Dunque sono orientamenti che vanno corretti o abrogati e sostituiti con altri migliori e più saggi.
Per ottenere questo al limite si potrebbe indire un nuovo Concilio, ma può essere sufficiente una correzione di rotta nella pastorale da parte dell’episcopato, oggi ancora troppo legato a quegli orientamenti non più adeguati per non dire dannosi.
Mi riferisco ad un’ormai ben nota mentalità buonista, troppo accondiscendente nei confronti degli errori, delle ingiustizie e degli scandali, ad un certo ecumenismo irenista, opportunista, inconcludente e reticente, ad un rapporto col mondo moderno basato sull’equivoco e il cedimento, ad un linguaggio che a volte può essere strumentalizzato dai modernisti e ad altre cose.
La proposta di Mons. Gherardini di "un’attenta e scientifica analisi dei singoli documenti" prima di "metter mano all’auspicata ermeneutica della continuità", mi sembra dettata – se non interpreto male il pensiero dell’illustre teologo – da una certa pretesa di sottoporre i documenti ad un esame per verificare se questa continuità esista o non esista, quando invece il teologo cattolico deve dar per scontato che esiste, pena la messa in dubbio dell’assistenza dello Spirito Santo, alla quale accennavo sopra, sempre che Gherardini si riferisca, come mi par di capire, ai documenti dottrinali, giacché per quelli pastorali, come ho detto, non esiste l’infallibilità, per cui almeno in linea di principio possono essere criticati o abrogati.
Quanto a ciò che afferma il prof. Corrado Gnerre ("mi sembra che per la prima volta s’invochi da parte del Magistero un’ermeneutica per un atto del Magistero stesso"), in realtà, come dimostra la storia del dogma, la Chiesa è sempre successivamente intervenuta a chiarire, esplicitare o interpretare pronunciamenti precedenti che avevano dato occasione a dubbi, controversie o false interpretazioni. E il postconcilio non fa eccezione. Per questo il riferimento che noi cattolici dobbiamo avere davanti allo sguardo non è l’interpretazione di questo o quel teologo o vescovo o cardinale - neppur il Papa come dottore privato è infallibile -, ma è l’interpretazione ufficiale del Magistero che nel corso di questi quarant’anni è intervenuto moltissime volte ad offrirci la retta interpretazione di singoli passi o documenti, sia per bocca del Papa che degli organi della Curia Romana o con lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica o col nuovo Codice di diritto canonico.

(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, Messainlatino.it, 18 dicembre 2010)

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