sabato 22 dicembre 2012

Bianchi e il suicidio del monaco tibetano

Enzo Bianchi è diventato il Norberto Bobbio della cultura religiosa italiana. L’articolo apparso su «La Stampa» del 16 dicembre scorso è il manifesto del pensiero relativista che imperversa anche a causa sua, poggiando le sue asserzioni sul luogo comune, sulla demagogia, sull’utopia politica e religiosa, su idee che hanno il sapore di tutto, tranne che quello della dottrina cattolica.
Parlando di un monaco del Tibet che si è dato fuoco per denunciare l’oppressione del regime politico cinese sull’Altopiano, Bianchi ha preso spunto per scrivere un articolo apologetico sui seguaci del Buddha, definendo «martirio» il suicidio. Qui è definito bene ciò che in realtà è male e che non può essere, per nessun motivo ragionevole, indicato come modello a cui guardare con ammirazione: «il destinatario di questo gesto estremo [il suicidio], divenuto ormai quasi quotidiano, è il loro stesso popolo: con la loro vita e la loro morte vogliono affermare la grandezza di una religione e di una cultura che non accetta di piegarsi al male, vogliono testimoniare a chi è scoraggiato dall’oppressione che si compiono azioni perché è giusto farle, che esistono ingiustizie che vanno denunciate a ogni costo, che ci sono valori per cui vale la pena dare la vita fino alla morte.
Questo è l’interrogativo lancinante che ci porta a ripensare le nostre priorità, la nostra capacità di reazione al male, la nostra disponibilità a pagare un prezzo per ciò che per noi non ha prezzo».
L’encomio e l’esaltazione del suicidio buddhista arriva a punte inimmaginabili: «È pratica antichissima, attestata fin dalla prima metà del V secolo in Cina, con raccolte di biografie degli asceti buddhisti immolatisi nel fuoco: queste testimonianze – una decisiva la si trova in un capitolo della Sutra del Loto – rivelano che non si è mai di fronte a un gesto impulsivo, ma che invece una lunga prassi di ascesi e purificazione fatta di digiuni e meditazioni ha preparato il sacrificio estremo di donarsi al Buddha per il bene degli altri.
«Il martire che si nutre e si ricopre di incensi e profumi per poi ardere compie un’offerta libera e totale per la salvezza di tutti: non mira unicamente alla propria rinascita, ma al rinnovamento del mondo. E questo lo fa attraverso un’azione non violenta nel senso forte del termine, un’azione cioè che accetta di assumere su di sé la violenza senza replicarvi, senza rispondere alla violenza con la violenza, spezzando così la catena infinita dell’ingiustizia riparata con un’ingiustizia più grande. È come se di fronte al male e a chi lo compie il monaco affermasse non solo che il malvagio non potrà avere il suo corpo ma anche, verità ancor più destabilizzante, che non riuscirà a fargli assumere lo stesso atteggiamento malvagio».
Sono tali affermazioni ad essere destabilizzanti per tutti coloro che, ignari, guardano ad Enzo Bianchi come ad un maestro della Chiesa, la quale mai e poi mai potrebbe professare una simile menzogna. Mai Gesù ha parlato in questi termini, mai gli Apostoli, mai i Padri della Chiesa, mai i santi.
Cristo si è lasciato crocifiggere per testimoniare la Via, la Verità, la Vita; Via, Verità e Vita che non hanno nulla da spartire con i «martiri-suicidi» buddhisti o musulmani (perché se tale perverso ragionamento vale per i primi, vale anche per i secondi, anche se il gesto islamico unisce alla violenza nei confronti di se stessi quella nei confronti degli altri, assente il quello buddhista).
Una simile violenza su di sé un cattolico non potrà mai definirla «un’offerta libera e totale per la salvezza di tutti». La definizione cattolica di un tale gesto la offre Dante: «L’animo mio, per disdegnoso gusto, / credendo con morir fuggir disdegno, / ingiusto fece me contra me giusto» (Inferno XIII, 70-72): la vittima, che, per riscattare il proprio onore, si suicida, diviene assassino di se stesso e come tale merita la dannazione eterna.
Cristo si è lasciato immolare per la salvezza di tutti e di ciascuno, anche del monaco tibetano. Ha comandato e continua a comandare di evangelizzare tutte le genti, portando tutti da qualunque falsa religione all’unica Verità: il Redentore è nato e si è lasciato uccidere per la salvezza della loro anima come della nostra.
L’alchimia soggettivistica e relativistica alla Enzo Bianchi produce sostanze venefiche che intossicano il credo dei fedeli. Al centro della sua personale dottrina non c’è la Trinità; la sua dottrina è l’antropocentrismo dei modernisti, apostati di ogni fede, più ancora che eretici, dei quali non hanno neppure il rigore etico nell’errore; pone al culmine della gerarchia dei valori l’uomo e la sua individuale, soggettiva e mutevole brama, oltre ogni oggettiva conoscenza ed ogni oggettiva legge morale: ecco che il suicidio viene scambiato per martirio, solo perché vi si presume tale intenzione nel cuore del suicida stesso.
Enzo Bianchi è il suadente cantore dell’irrazionalismo kantiano, dell’impossibilità per l’uomo di conoscere la verità e del conseguente abbandonansi all’opinione. Da questo, discende, inesorabilmente, la morte di ogni etica naturale, oggettiva ed uguale per tutti. È di ogni evidenza che, senza un’etica naturale, non ci sarà neppure un diritto naturale. Nella Babele delle opinioni contrastanti l’unico collante rimasto per la socialità umana sarà la violenza, del più forte contro gli altri e del più debole contro se stesso.

(Fonte: Cristina Siccardi, BoseCuriose.it, 19 dicembre 2012)

 

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