Nato a Genova nel 1926, Penco vi si era laureato alla facoltà di Lettere classiche nel 1948 con una tesi su Tacito. L’impronta umanistica non lo abbandonò mai, restando il tratto peculiare del suo orientamento umano e storiografico, anche quando, abbracciata la vita monastica a Finalpia, tra il 1950 e il 1955 frequentò a Roma i corsi di Teologia nell’Ateneo pontificio di Sant’Anselmo sull’Aventino. Qui gli furono maestri monaci di grande levatura quali Cipriano Vagaggini, Basilius Steidle, Benedetto Calati, né ebbe meno importanza nella sua vita la conoscenza, sebbene più tarda, nel 1967, di una stella del firmamento monastico come Adalbert de Vogüé.
Quale fu il principio animatore del suo metodo storiografico, che gli permetteva di creare immediatamente un ponte tra l’oggetto e il destinatario delle sue ricerche? Sicuramente l’empatia. Me lo confermò lui stesso rispondendo a una domanda che gli posi in occasione dei suoi ottant’anni: «L’empatia è un principio generale, animatore di ogni interesse anche in campo storico. Naturalmente essa è pure alla base di quella inevitabile “selezione” che è imposta dalla vastità della materia, anche se ho sentito sempre grande interesse per la storia universale, come pure per la storia della storiografia. Ma a mano a mano che ci si immerge nel passato e lo si assimila, se ne vede anche la continuità, il che aiuta precisamente a superare la dinamica o dialettica tra avvicinamento e distacco».
In questo modo Penco ha saputo avvicinare tanti lettori a innumerevoli figure di monaci del passato, ai monasteri, alle correnti spirituali e culturali del monachesimo benedettino e non, che dal medioevo a oggi hanno attraversato, intriso di sé e fecondato tanta parte della storia umana, religiosa, culturale, economica dell’Italia dal Piemonte alla Calabria, alle isole. (Mariano Dell’Omo, Osservatore Romano, 14 dicembre 2013)
Grande
e umile insieme. Un monaco tutto d’un pezzo. Rigoroso ed esigente non solo con
gli altri, ma soprattutto con se stesso.
L'ho
rivisto l'ultima volta esattamente un mese fa: mi ha riconosciuto
immediatamente e un sorriso misto di gioia e di rimprovero gli ha illuminato
per un lungo istante il viso, mentre mi scrutava con i suoi occhi penetranti. Si, di rimprovero: perché, oggi lo posso dire, sono stato uno dei suoi discepoli più "ostici".
Ricordo comunque la frequenza alle sue lezioni entusiastiche, il lavoro di correzione delle bozze del suo "Storia del Monachesimo in Italia...", le battiture a macchina delle sue "notule" e dei suoi articoli: io e don Palma, l'altra sua spina nel fianco.
È vero, eravamo i suoi studenti più esuberanti, ma anche quelli "tecnologicamente" più preparati, e lui si fidava nell'affidarci una prima revisione dei suoi "tesori".
Sempre cordiale, allegro, disponibile. Quando, dopo circa vent'anni, gli ho telefonato da Roma per avere alcuni consigli su come impostare una serie di mie lezioni sul monachesimo, mi ha tenuto oltre un'ora al telefono, con lo stesso entusiasmo nella voce, come se ci fossimo lasciati sono poche ore prima.
Ti confesso, caro amico, che averti rivisto a novembre così sofferente (il tuo respiro era ridotto ad un rantolo) mi ha colpito il cuore; ma quello che ancor più mi ha colpito, è stato rivedere la tua forza indomita nel reagire alla sofferenza, il tuo incedere solenne e quasi spedito, perfettamente eretto, mentre dalla tua camera ti affrettavi alla cappella per il canto delle Lodi. Ora riposa in pace, caro indimenticabile maestro: ancora oggi, e lo sarà per sempre, mi risuonano nella memoria le tue raccomandazioni, i tuoi consigli. E penso che succederà lo stesso, come a me, anche allo stuolo innumerevole di persone che hanno avuto la fortuna di conoscerti e di frequentarti.
Mi unisco spiritualmente ai tuoi confratelli di Finalpia, al tuo abate dom Romano, che in questo momento ti stanno dando liturgicamente l'estremo saluto e il corale augurio: "In paradisum deducant te angeli, in tuo adventu suscipiant te martyres...".
(M.L., 14 dicembre 2013)
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