In
una voluminosa raccolta di saggi, “Noi Italiani“, pubblicato dal prestigioso
editore napoletano Guida, Ugo Frasca osa gettare l’ombra del ridicolo su due
santoni, Corrado Augias e Mauro Pesce, in attività sfrenata & pagata sul
lepido palcoscenico della televisione pubblica (quella che, dietro versamento
di un canone esigente, provvede all’educazione ateistica e pederastica degli
italiani impertinenti e refrattari).
In
obbedienza ad un alto disegno strategico, che prevede la dissacrazione del
Cristianesimo e il trionfo di una fede liberata dal soprannaturale, Augias e
Pesce scendono in campo impugnando armi a misura della loro
disinformazione: le smaccate sentenze, che il popolo parlante e sentenziante
nei bar ha raccolto nelle cineree discariche del positivismo e del modernismo.
Nella
pia convinzione di interrogare testimoni viventi, il duo Augias-Pesce dialoga,
infatti, con le ossa di sentenze spolpate e messe a tacere dalla loro svelata
inverosimiglianza.
I
due tele-contestatori affermano, ad esempio, che Gesù non avrebbe apportato
alcuna innovazione all’ebraismo. E per conferire credibilità alla loro
strampalata e fossile opinione affermano, quasi facendo eco ai modernisti di
prima e obsoleta generazione, che la dottrina cristiana fu elaborata nella
seconda metà del secondo secolo.
Tale
affermazione costringe il duo a ignorare/occultare le contrarie
testimonianze di San Paolo, di Plinio il Vecchio e di Ignazio d’Antiochia.
Ultimamente
Benedetto XVI ha peraltro dimostrato che “i testi relativi all’accaduto sono
contemporanei. Grazie a Paolo soprattutto veniamo condotti a ridosso degli
avvenimenti. La sua testimonianza dell’Ultima Cena e quella della Risurrezione
– I Corinzi 11 e 15 – risale letteralmente agli anni trenta”.
La
censura delle testimonianze riguardanti la datazione dei testi non impedisce
l’esecuzione da parte di Augias-Pesce di un funambolico esercizio di
fanta-teologia: “le autorità ebraiche non avrebbero avuto alcuna partecipazione
nella condanna di Gesù“.
Se
non che in una Lettera di San Paolo, datata 40 d. C., si legge “i giudei hanno
messo a morte Gesù” (I Tess. 2,15) mentre San Giovanni “mette in risalto il
ruolo di capi e Sinedrio“.
Un
vero infortunio di Augias-Pesce è la confusione di Gesù con il re che pronuncia
– in una parabola – le parole minacciose citate dall’evangelista Luca: “E quei
miei nemici che non volevano che diventassi loro re conduceteli qui e
uccideteli davanti a me“.
In
obbedienza alla legge storicista, che esige la manipolazione e la conformazione
di Gesù Cristo alla figura trionfante in una data epoca, ad esempio il filosofo
hegeliano, il militante socialista, il contestatore giovanile, Augias-Pesce
proiettano sul Vangelo l’infame e ributtante ombra del nuovo ed universale
feticcio: la sodomia.
In
un altro testo (scritto in collaborazione con Remo Cacitti) si rompono e
abbattono gli argini che trattengono le fandonie: “Gesù non ha mai detto di
voler fondare una religione, una Chiesa, che portassero il suo nome, mai ha
detto di dover morire per sanare con il suo sangue il peccato di Adamo ed Eva,
per ristabilire cioè l’alleanza tra Dio e gli uomini…”
Probabilmente
la radice dell’ateismo professato dall’impavido Augias è il culto della propria
venerata personalità. Un culto pulsante nella notizia (da lui propalata ma non
provata) secondo cui nei piani alti del Vaticano sarebbe conservato un
minaccioso dossier su “Augias persona pericolosa“.
Pericolosa
a chi? L’esistenza di prelati atterriti dal ruggito di un topo non si può
escludere, dopo l’alluvione buonista scatenata dalla nuova teologia.
Tuttavia
non è seriamente pensabile che la Chiesa, una società che ha resistito
imperterrita alle persecuzioni organizzate dalla superstizione regnante
nell’impero romano, alle invasioni dei barbari e dei maomettani, alle guerre
scatenate dal delirio di Lutero e dei principi tedeschi e ultimamente al furore
di Stalin e di Hitler, tremi davanti alle sgangherate pagine del trio
Augias-Pesce-Cacitti.
Non
convince tuttavia la scelta di Frasca, che alla fine del suo convincente excursus
ricorre alle divagazioni kantiane di Vito Mancuso per sferrare un colpo di
grazia al pensiero di Augias.
Secondo
Mancuso, infatti, la prova della verità cattolica si troverebbe in una pagina
(implicita) della “Critica della ragion pura”: “crederò inevitabilmente
nell’esistenza di Dio e in una vita futura, e sarò sicuro che nulla può far
vacillare questa fede, poiché altrimenti risulterebbero rovesciati i miei
stessi principi morali”.
La
fragilità di una tale tesi, infatti, si manifesta nella paradossale conclusione
che ne trae Mancuso: “l’emancipazione ambita in genere da illuminismo e
idealismo tedeschi non è dalla religione e dal sacro ma da forme immature della
religione e del sacro”.La strenua e argomentata difesa delle verità di fede è sciupata dalla fuga dalle verità di ragione. Nel cedimento del credente Frasca al disordine filosofico regnante negli scritti avventurosi di Vito Mancuso, è riflesso la malattia della Chiesa post-conciliare, ossia l’incapacità e in alcuni casi l’ostinato rifiuto di conservare la tradizionale consonanza di fede e ragione.
(Piero
Vassallo, Riscossa Cristiana, 9 febbraio 2014)
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