mercoledì 18 gennaio 2012

Posso scegliere. E allora scelgo

Scelgo di non andare a Milano. Di non pagare il biglietto d’ingresso al Teatro Parenti.
Scelgo di non vedere la messa in scena delle feci di Castellucci (che meraviglia la polisemicità, le sfumature della lingua italiana!). Di non sentirne il fetore.
Scelgo che pazienza se mi dicono che non sono al passo con i tempi e nemmeno un’esperto di teatro d’avanguardia, o iperrealista. Non voglio naufragare nella realtà che il regista definisce “scatologica” (dal greco tç skòr, genitivo sktçv, che significa “escremento”, più lçgov, “pensiero, ragionamento”).
Contento lui di gettare merda su un giovane, un vecchio, il palcoscenico, la realtà, gli uomini e il loro Dio. Contenti gli allocchi di spettatori che per vederla ed odorarla, quella merda, pagano anche.
A me non interessa. Nel senso letterale del termine, non mi interessa (“inter – esse”, esserci dentro), quella merda. Ne sto volentieri fuori.
Meglio delle fogne il mare, anzi l’oceano della compassione, che c’è, grazie a Dio. C’è. Ma non finisce mai sotto i riflettori – e sarebbe interessante cominciassimo a chiederci perché. E neanche “recensita”, la compassione, dalle firme che sui giornali contano.
Anche Madre Teresa di Calcutta si è occupata di “scariche irrefrenabili di dissenteria”. Lei e tanti come lei. L’hanno fatto e lo fanno in silenzio, quotidianamente, senza montarci su uno spettacolo, senza lucrare, senza farsi pubblicità. Lo fanno gratuitamente, perché un essere umano accudito con amore ritrova la sua dignità.
Nella sua «Casa per i morenti abbandonati», vicino al tempio della dea Kalì (che simboleggia morte e distruzione), raccoglieva con le sue suore i poveri in fin di vita che trovava sui marciapiedi della metropoli, soli, da tutti abbandonati. «Qui possono fare una morte da uomini», diceva «sentirsi amati da qualcuno».
Posso scegliere. Allora scelgo, di fronte alla decadenza del corpo, in scena rappresentata da “scariche irrefrenabili di dissenteria”, lo sguardo di Madre Teresa e dei tanti come lei. Nell’uomo e nella donna, nel bambino e nel vecchio che stanno pulendo sanno che è di Cristo che si prendono cura.
Il padre e il figlio della performance di Castellucci raccontano l’umiliazione profonda della persona, della realtà, della quotidianità. E poi rabbia, frustrazione, debolezza, impotenza, disagio, malessere… Non c’è scampo. Non c’è via di fuga per nessuno di coloro che entrano in scena. Sommersi dalla realtà “scatologica”, in quel pantano e nel suo lezzo restano imprigionati. Loro, creature, e pure il Creatore che dileggiano, rabbiosi e infelici, trascinandolo con sé nel mare magnum della fogna fetente.
Posso scegliere. E allora scelgo.
Al posto del liquame nero che tutto copre e svilisce, deturpandolo, scelgo il cappottino rosso della bambina che, nel film “Schindler’s list” cattura irresistibilmente lo sguardo e commuove fino alle lacrime, ricordandoci che gli uomini non sono numeri, ma esseri unici e irripetibili.
Nelle scene in bianco e nero, nella confusione di vittime e carnefici, al ghetto di Cracovia, quel puntino rosso che non ha scampo, seguito con commozione dagli occhi impotenti di Schindler e di tutti noi, ci rammenta l’obbrobrio di un’umanità calpestata. Ed è grido di rivolta, perché non è la devastazione ciò a cui aspira il cuore dell’uomo, è la bellezza: spiraglio che sempre conduce al vero e al bene.
Posso scegliere. E allora scelgo.
Nel disfacimento che sembra, contagioso, divorare ogni cosa, scelgo la madre di Cecilia, uscita dalla penna e dal cuore di Manzoni. È una questione di sguardi. Sempre.
Di fronte al dolore della Storia e dell’uomo. Di fronte alla guerra, alla povertà, alla malattia. È una questione di sguardi. Posso scegliere. Scelgo lo sguardo della madre di Cecilia. Questo.
«Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de'volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, “no!” disse: “non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete”. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: “promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così”.
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affacendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: “addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri”. Poi, voltatasi di nuovo al monatto, “voi”, disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola”.
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.
Posso scegliere. E allora scelgo.
Dentro la sofferenza, dentro la devastazione, scelgo chi si commuove per l’uomo. Scelgo la pietà. Scelgo esseri umani che si prendono cura di altri esseri umani.
Scelgo - e desidero per me - lo sguardo di Cristo: “pupilla d’aquila, solo compagno sapiente”.

(Fonte: Luisella Saro, Cultura cattolica, 14 gennaio 2012)


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