Un
evento come Sanremo si presta da sempre, in quanto spettacolo senza rete,
all’uso mediatico dei personaggi bizzarri, che garantiscono l’audience proprio perché nessuno può
prevedere cosa uscirà dalla loro bocca. L’invenzione dello Scemo del Villaggio Televisivo si deve (perlomeno per il grande
pubblico) a Pippo Baudo, che ha sempre fatto uso di questo genere di bocche
abilitate a dire tutto quello che passa loro per la testa: ricordiamo le
apparizioni di Beppe Grillo, o di Roberto Benigni, nella cui nicchia ecologica
si situa anche questo Adriano Celentano.
Che i
discorsi di questa gente siano sensati o meno, ha poca importanza. Meglio se
non lo sono, c’è più suspence. Pippo
Baudo, che secondo me è un genio, applicò prima degli altri la legge per la
quale la forza di un evento dipende dall'importanza che il pubblico gli
attribuisce. L’evento di per sé è poco e nulla. Cosa ci resta delle esibizioni
di Benigni o di Grillo? Allo stesso modo, cosa resterà tra qualche giorno delle
parole di Celentano? La vera invenzione è la trappola mediatica, che purtroppo
(almeno secondo me) funziona quasi sempre. Questa volta ci sono cascati anche i
vescovi italiani, i quali adesso esigono le scuse di Celentano, perdendo
un’occasione per mostrarsi un po’ superiori alla media. Quanta gente, tutti i
giorni, esige le scuse di qualcuno, che magari poi si difende usando la celebre
espressione «sono stato frainteso»? Ho l’impressione che molti prelati, visto
il coro che si è levato, giustamente e a proposito, contro Celentano, non
vedessero l’ora di stare dalla parte della “maggioranza che conta”, a fianco di
celebri editorialisti e critici televisivi.Senza rendersi conto che questo coro ingigantiva la portata dell’evento e quindi, in qualche modo, ingigantiva Celentano oltre ogni limite ragionevole. Prelati, vescovi, mi rivolgo a voi: vi pare ragionevole assumere una posizione che vi rende simili a un politico qualunque? La prossima volta cosa farete? Andrete per avvocati? Sporgerete denuncia? Potevate cavarvela con due parole generiche sull’uso disinvolto e spregiudicato della libertà di pensiero e di espressione, oppure - meglio - ricordando a Celentano tutto quello che la Chiesa fa, nel mondo, per i poveri, per i diseredati, per gli ultimi. Come ha precisato, opportunamente, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio quando ha detto che il suo giornale ha sempre parlato di Cristo, della Carità e del Paradiso. Ci vuole un po’ di stile in queste cose. Invece, con questa sgraziata richiesta di scuse, voi avete dato ragione a lui, proprio come Pippo Baudo aveva previsto tanti anni fa.
Ma forse c’è anche un altro problema.
La vera importanza storica di Celentano sta nell’immagine “mediatica” che rappresenta: quella di un tipico ragazzo lombardo del dopoguerra, che frequenta l’oratorio e, nonostante gli orrori passati, ha fiducia in Dio e nel futuro, e col suo rock’n’roll infonde fiducia anche negli altri. Celentano è proprio un figlio della Chiesa intesa come parrocchie, preti, oratori, catechismo. E la sua esibizione dell’altra sera mostra la forza ma anche le crepe di un programma educativo che seppe trasmettere il cristianesimo come dottrina, rito, etica, o come convivenza sentimentale, ma non come cultura, ossia come autocoscienza. Qualcuno magari si illuse che per questo bastasse avere un’Università Cattolica, o un quotidiano come Avvenire, mentre si sa che giornali e università sono cose come la matematica, che non insegna a ragionare, mentre è utilissima a chi sa già ragionare.
Così la fede cristiana non diventò la forma del rapporto con la realtà di tutti i giorni: per quello bastavano le regole morali, o l’interesse economico, o le logiche di potere. Il discorso di Celentano è il prodotto “pasticciato” proprio di tutto questo: una stupidaggine irritante, certo, ma in linea con la trovata di quel diavolo di Pippo Baudo!
(Fonte:
Luca Doninelli, Il Giornale, 20 febbraio 2012)
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