Credo che una risposta possibile stia nella constatazione che, qui pure, è venuto meno l’equilibrio tra due realtà. Quella che chiamiamo “messa” ha un doppio aspetto: è una agape, un pasto tra fratelli che credono nel Cristo; ma, al contempo, è il rinnovamento misterico del sacrificio cruento e redentore di quel Cristo stesso. La celebrazione eucaristica è una occasione comunitaria e insieme una Realtà sacra. Quest’ultima ha certamente preso il sopravvento nei secoli tra il Concilio di Trento e il Vaticano II e attorno all’eucaristia sembra essersi accentuata un’atmosfera da mysterium tremendum, con lunghi digiuni e norme severe per potere accostarvisi. La comunione solo come premio per i giusti. L’ostia era intoccabile da mani che non fossero consacrate, i catechisti davano persino istruzioni concrete su come assumerla e inghiottirla, raccomandando soprattutto che non fosse masticata. La consacrazione avveniva a voce bassa, ovviamente in latino, tra squilli di campanelli che segnavano il tempo misterico e il precetto di inginocchiarsi nel raccoglimento. Tutti in ginocchio, davanti alle balaustre che delimitavano lo spazio sacro riservato ai sacerdoti, anche nell’assumere la particola. Dopo l’ultimo Concilio, il contrappeso del pendolo è passato dal lato opposto: nel senso comune dei fedeli, ma anche di gran parte del clero, è prevalso l’aspetto “conviviale”, l’idea del banchetto festoso tra amici: e a chi, in simili occasioni, si può negare il cibo? La consacrazione avviene a voce alta, nella lingua comune del posto, i campanelli sono impolverati negli armadi in sacrestia, il “pane eucaristico” (come amano chiamarlo) si riceve in piedi, nella mano. Sconsigliato in ogni caso l’inginocchiarsi, in nessuna fase del “pasto”: e, in effetti, buona parte delle nuove chiese ha i banchi senza inginocchiatoi oppure comuni sedie. L’omelia stessa è considerata troppo direttiva, inadatta per un incontro festoso tra amici ed è spesso sostituita da un dialogo tra gli astanti e il celebrante. Anzi, questa parola stessa è non di rado rifiutata: il prete, anzi il presbitero (mai dire “sacerdote”, termine troppo sacrale!) è solo colui che presiede all’adunanza fraterna, è il coordinatore, l’animatore della festa che è “celebrata” da tutti i convitati. I quali sono invitati a stringersi la mano, ad abbracciarsi. Ad essi sono affidate anche le intenzioni della preghiera. È indubbio che c’è questa prospettiva dietro le fila totalitarie di coloro che vanno a ritirare il “pane” che si mettono in bocca essi stessi. Se la messa è un incontro tra fratelli invitati tutti a tavola, che bisogno c’è di farlo precedere da uno spinoso esame di coscienza, seguito dal faticoso raccontare i fatti propri, anche i più intimi, a un confessore? Per purgarsi dai peccati? Ma che cos’è il peccato e di che cosa dobbiamo farci perdonare?
Insomma, questo è il problema: come al solito, occorrerebbe la compositio oppositorum, il “questo” ma anche “quello”, bisognerebbe recuperare la prospettiva della celebrazione eucaristica come una realtà complessa, duale, dove c’è un tempo per gioire e un tempo per meditare, un posto dove un’assemblea umana incontra il Mistero divino, dove il tempo incontra l’infinito, dove ci si stringe la mano e ci si abbraccia festosi ma anche si recita il mea culpa per le proprie colpe. Naturalmente, a viste umane, credo non ci sia da illudersi: l’equilibrio è, per noi bipedi, tra le cose più difficili da trovare e da conservare. Nel grande, spesso aspro dibattito postconciliare a proposito della celebrazione eucaristica, due schieramenti si sono contrapposti, ciascuno però con una visione che sembra davvero parziale. Da una parte i “tradizionalisti”, difensori del carattere sacrale della messa; dall’altra parte i “modernisti” (chiamiamoli così, per intenderci), fautori della prospettiva assembleare, sociale. Mi sembra che, da entrambe le parti, pochi siano stati davvero consapevoli che ciò che bisogna innanzitutto recuperare è la consapevolezza della complessità, della “ambiguità” - in senso etimologico - della celebrazione eucaristica ».
Questo è quanto scrive Vittorio Messori sulla sua rubrica Vivaio sul mensile Il Timone del mese di febbraio.«Forse il danno più grave della riforma della Santa Messa di Papa Paolo VI e dello sviluppo che ne è derivato, e che ha “superato” di gran lunga la riforma stessa, la perdita spirituale più grande, è questa: essa ci costringe ora a parlare della liturgia. Anche chi vuole custodire la liturgia, anche chi vuole pregare nel suo spirito, anche chi resta fedele ad essa con grandissimi sacrifici, ha già perduto qualcosa di inestimabile: l’innocenza di assumerla come qualcosa dato da Dio, qualcosa donato dall’alto, dal Cielo agli uomini. Come difensori della grande liturgia santa, della liturgia romana classica, siamo tutti divenuti grandi o piccoli liturgisti. L’abbellimento scientifico, archeologico e storico della riforma ci ha costretti a confutare queste argomentazioni e dunque ad occuparci del rito e della liturgia, qualcosa che ripugna profondamente all’uomo religioso [M. Mosebach, Eresia dell’informe, Cantagalli, p. 39]».
Per tornare alle parole di Messori, mi domando, da ignorante, ma desideroso di capire; da inesperto ma conoscitore dell’acredine che corre tra i cosiddetti tradizionalisti e i cosiddetti modernisti (per rifarmi alle categorie usate da Messori); ebbene, mi domando: questa sintesi, questo equilibrio tra il “tempo per gioire e un tempo per meditare, un posto dove un’assemblea umana incontra il Mistero divino, dove il tempo incontra l’infinito, dove ci si stringe la mano e ci si abbraccia festosi ma anche si recita il mea culpa per le proprie colpe” non era il compito prefissatosi dalla riforma di Paolo VI? E se si è ancora qui ad auspicarlo non sarà corretto affermare che la riforma montiniana ha miseramente fallito? Proseguo con le domande. Ma davvero il Messale di san Pio V (nell’edizione del beato – ormai prossimo santo - Giovanni XXIII) ignora l’aspetto conviviale, comunitario, festoso e mondano? O meglio, se ignora questi aspetti non sarà perché – magari alcuni non tutti – essi sono considerati – e forse anche giustamente - inadatti alla celebrazione della Santa Messa? Il problema tra rito antico e rito nuovo è davvero un problema di rito? Che il nuovo rito penda solo sull’aspetto conviviale fino a negare quello sacrificale è più che evidente; ma siamo sicuri che l’aspetto conviviale sia negato o oscurato nel rito antico? Non sarà, piuttosto, che eventualmente il problema stia nell’educazione ai Sacri Misteri? Se la gente non capisce è perché è fallace l’educazione e se è fallace l’educazione, non si risolve il problema – anzi lo si esaspera – modificando i riti ed evitando di assumersi l’onere dell’educazione. Le esagerazioni post-tridentine, ammesso che ci siano state, non furono un errore della catechesi più che un problema del rito stesso? Se la riforma di Paolo VI è stato un atto tirannico (come sostiene Mosebach), non ha senso continuare a perseguire su questa forma per il semplice motivo che c’è stata e che quindi, volenti o meno, dobbiamo tenercela. È impensabile che domani il Papa ripristini come unico Messale quello edito dal beato Giovanni XXIII, ma è altrettanto impensabile – credo – la convivenza pacifica tra i due messali, così come – credo – è impensabile mantenerla in futuro. A prospettive umane (mie) temo che a rimetterci sarà, come il recente passato dimostra, l’attuale Forma Straordinaria del Rito Romano. Non ho carismi profetici e mi limito a questa banale previsione, ma è evidente che un problema c’è e che qualcuno prima o poi dovrà affrontarlo (evitando magari battute sarcastiche e giudizi discutibili su chi si santifica con la “Messa antica”) con l’obiettivo di risolverlo. Il rito ibrido, più che accontentare tutti, credo, scontenterebbe tutti.
Perché il problema è nato quando la nuova forma è stata imposta. Certo, non basterà eliminare la novità per ripristinare la serenità e non saprei proporre una soluzione. Rimango però sorpreso e dubbioso sulla “soluzione” proposta da Messori. Perché così, tra tradizionalisti e modernisti, il risultato è quello dei normalisti, dove nella migliore delle ipotesi sono dei modernisti, magari un po’ più prudenti – o pavidi – per cui tutto va bene. E a rimetterci è sempre e solo la sacralità e la verità (il Dogma) che la liturgia dovrebbe trasmettere. Per non parlare della dignità del culto dovuto a Dio.
Vista l’autorevole mano che ha vergato queste parole c’è da prenderle in seria considerazione, così come, almeno personalmente, c’è da andare moderati nei giudizi. Non sono nessuno per replicare a Messori e non voglio assumermi la presunzione di saperne più di lui, ma ho qualche perplessità sulla conclusione delle sue considerazioni. Mi pare di capire – potrei sbagliarmi – che la soluzione proposta e auspicata da Messori sia quella di una riforma liturgica ibrida (mi sia concesso il termine) in cui convergano elementi della cosiddetta Forma Straordinaria e elementi della cosiddetta Forma Ordinaria. Ora, la questione è talmente complessa e spinosa che il solo avvicinarsi comporta l’esplosione di determinate mine antiragionamento. Della liturgia non se ne può più parlare perché ne parlano tutti e in pochi – me compreso – con debita cognizione di causa. Ed è questo già un dato importante e grave.
(Fonte:
Chiesa e postconcilio, 3 marzo 2014)
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