Bella e profonda l’occasione scelta da mons. Mariano Crociata per stigmatizzare il “libertinaggio irresponsabile”, predicato e diffuso da decenni nelle società avanzate, e capillarizzato dal circuito perverso di modelli di reciprocità, non solo sessuale, oggi generalizzato dai nuovi media.
In un coraggioso saggio sul Pudore, che è singolare sia stato pubblicato da Einaudi (perché ha ben poco di ‘emancipatorio’), Monique Selz scriveva: “In questa esibizione che fa vedere tutto, è in gioco niente meno che il tentativo o il simulacro della rivelazione del mistero dell’origine, che porta (…) all’illusione che sia possibile comprendere l’altro totalmente e quindi impossessarsene. [Contro questo] il pudore ha il compito di nascondere l’immagine per proteggere l’essere”.
Preziosa, dunque, l’occasione della festa (non “una” celebrazione in memoria, come leggo da qualche parte) della “piccola e dolce martire della purezza”, secondo le parole di Pio XII, santa Maria Goretti, il 6 luglio scorso. La canonizzazione di Marietta, fiduciosa “nel provvido amore di Dio” così da non dubitare, dodicenne, che le prescrizioni di quell’Amore potessero valere la vita, segna l’adolescenza cattolica della mia generazione: una difficile, travagliata cura della castità da preservare per il rapporto matrimoniale, il più alto e compiuto. Il film di Genina (Il cielo sulla palude, 1949) spiato, con turbamento (non eravamo ingenui), nelle sale parrocchiali, e la diffusa menzione del martirio per la purezza; l’attenzione al percorso di pentimento e riscatto del Serenelli, il ragazzo omicida del lontano 1902; tutto contribuiva all’interiorizzazione, in maschi e femmine, di quel paradigma, inarrivabile forse ma operante. S’intende che eravamo già sotto gli occhi irridenti dei “libertini” e, mi si perdoni, dei puttanieri, adulti o coetanei.
Nei decenni successivi l’ironia per quella vicenda così poco moderna, così poco liberante, e l’oblio, hanno prevalso anche nella formazione morale e sessuale cattolica. Solo il genio evangelizzatore di Giovanni Paolo II poteva dire, nel centenario della morte di Maria: “dal comportamento di questa giovane Santa emerge una percezione alta e nobile della propria e dell’altrui dignità, che si riverberava nelle scelte quotidiane conferendo loro pienezza di senso umano”. E più avanti: “In Maria Goretti risplende la radicalità della scelte evangeliche”. Eppure non era stata in Amazzonia né si era scontrata con la polizia.
La dispersione “libertina” delle antiche morali, la dittatura della trasparenza impudica del sé (Selz), l’ipertrofia delle libertà intime e la comoda retorica delle virtù pubbliche, il frequente “servirsi del richiamo alla moralità, prima tanto dileggiata, per altri scopi” (secondo le parole di mons. Crociata): per queste strade pubbliche l’emancipazione ha camminato e cammina, confermata o anticipata dalle leggi, dalla esibizione dell’orgoglio eversivo, del “pride” di turno, dai preservativi a scuola e la pillola abortiva nello zainetto, dalla consulenza immoralista dei magazine.
Tutta palese, e prevalentemente istituzionale, è infatti quella che chiamiamo socializzazione primaria, la formazione dei “giovani” enormemente diluita nel tempo. Dietro ai tanti educatori “alla libertà” (non stiamo parlando di veline) opera una visione del mondo seriosa, “adulta”, e programmatica è la decostruzione di principi e istituti. Non l’ ombelico scoperto impedirà ad una dodicenne di negarsi fino alla morte, come la Marietta, al desiderio di un ragazzo più grande; lo impedirà la somiglianza degli adulti, magari dei suoi stessi genitori, alle ciniche e disinibite comparse dei talk show. Tutto ciò è, obiettivamente e anzitutto, la realtà pubblica del “libertinaggio” evocato con forza dal segretario della CEI e che chiede il giudizio della Chiesa.
Alla sfera pubblica sembra appartenere, naturalmente, anche quella vita privata un tempo oggetto della chiacchiera sussurrata, della riservata calunnia, e che oggi la vetrina universale dei media di massa rende “pubblica”. Morale e diritto, però, ci rendono avvertiti. Tra coloro che propongono i modelli del Nuovo, nel romanzo, nel saggio, nel programma scolastico o nelle leggi di una regione, nella battaglia politica o nella accattivante esibizione (del genere Gay Pride), che dileggiano tutto ciò che è “vero, nobile e giusto”, da un lato, e colui che viene trascinato in pubblico, dall’altro, c’è qualche sostanziale differenza.
Nel primo caso, coloro che propongono un paradigma di emancipazione “libertina” si assumono responsabilità, in senso stretto, e provocano il nostro giudizio; per parte sua il giudizio cattolico afferma, da molto tempo, che “è in pericolo il bene stesso dell’uomo”.
Nel secondo caso, persone e condotte vengono trascinate da terzi nell’agorà, in modo che le giudichiamo, quasi fossero esse ad esibirsi e presentarsi. Ma con la mente alla polverosa, assolata piazza dell’adultera, questa procedura ci suggerisce piuttosto la bruciante frase di Gesù: ‘Chi di voi è senza peccato …’ (Giov. 8, 7). Infatti non vi è legittimità in un giudizio del genere; neppure legittimità morale (pubblica), poiché quella persona non attribuisce esemplarità alla condotta di cui è accusato. Proprio lo spazio privato da cui è stato strappato, per dirgli: Così ti mostri a tutti? fa intendere che egli non propone né una dottrina né un paradigma. Altri lo fanno. Inoltre, come il giudice (a meno non sia un giudice della Lubjanka) così il giudizio morale, che non può essere meno rigoroso, non possono accogliere delle deformazioni anzitutto lesive della persona, fatte per colpire il suo onore, come prove a carico.
Era un po’ di tempo che non si sanzionava così autorevolmente il diffuso e insidioso “libertinaggio, gaio e irresponsabile”, esibito e tollerato un po’ ovunque. Peraltro, esso ha genealogie e legittimazioni che l’intelletto cattolico aveva individuato con molto anticipo; non lasciamo che la mobilitazione dei ‘virtuosi’ ci cambi oggi le carte in tavola. La “piccola e dolce martire” non ne riceverebbe coerente memoria.
(Fonte: Pietro De Marco, L’Occidentale, 9 luglio 2009)
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