Ho comprato l’ultimo libro di Eugenio Scalfari: sono stato invogliato dal bel titolo saffico (Scuote l’anima mia eros, Einaudi) e dal coro di recensioni in sua gloria. Non tanto quelle prevedibili della Casa, La Repubblica e il gruppo annesso, ma dal Corriere della sera, i peana in tv, le marchette di Fazio, le seratone dedicate a lui, con resoconti salmodianti, i saloni del libro. Avrei voluto scriverne bene per tante ragioni, ma man mano che leggevo, la delusione incalzava e mi chiedevo: ma che roba è questa? cosa pretende di essere? Cenni di teologia e filosofia, letteratura e poesia, musica e autobiografia, il tutto in una chiacchiera da salotto, in un dorato vaniloquio. Una messa cantata a se stesso con un tono da “Maestro di color che sanno”. Né pathos né pensiero. Asserzioni dilettantesche del tutto infondate e inspiegate si alternano a ovvietà imbarazzanti. Cito a grappolo e a esempio: «Le mitologie, le religioni, le culture che hanno affrontato il tema degli istinti hanno avuto tutte come motivazione profonda la ricerca dell’assoluto»; ma non è assolutamente vero, da Aristotele agli illuministi, dai positivisti a Schopenhauer e Nietzsche fino a Freud hanno trattato degli istinti senza ricercare l’Assoluto. Oppure: «Potere e tristezza sono i due elementi dominanti dell’epoca che stiamo vivendo»; ma davvero il potere «dominante» è una novità della nostra epoca? O la tesi che nessun poeta moderno «ha sentito Eros camminargli sul cuore», ad eccezione di Garcia Lorca: ma scherziamo? Da Leopardi e Foscolo al romanticismo inglese e tedesco, dalla poesia francese alle poetesse russe, dai decadenti ai crepuscolari fino agli ermetici sono fiumi di poesie moderne e contemporanee sull’amore. E Scalfari sostiene che la modernità ha messo in fuga Eros... E ancora, secondo Scalfari «la trasgressione è cara agli dei» quando invece tutta la mitologia è piena di punizioni divine, l’ hybris , la trasgressione. I trasgressori vengono dannati dagli dei all’inferno, ridotti a piante o animali, tormentati e maledetti... O sciocchezze del tipo: «La mistica cristiana vive un rapporto di coppia nel rapporto con Cristo». O errori elementari come quello sul triangolo amoroso: «Si tratta di un triangolo isoscele nel senso che pende più da una parte che dall'altra»: se è isoscele ha due lati e due angoli uguali, se pende più da una parte non è isoscele ma scaleno (scuola dell’obbligo). Apprendiamo poi che «nel Settecento la valutazione dell’interiorità è ancora allo stato nascente» (si vede che da Agostino a Pascal avevano solo scherzato). O la formidabile scoperta scalfariana «dell’istinto di sopravvivenza della specie»; l’aveva fatta, un po’ prima di lui, Schopenhauer, ma Scalfari qui ricorda una gag di Peppino De Filippo che inventava brani musicali già celebri da secoli. Scalfari poi ci spiega finalmente che l’Essere di Heidegger è nient’altro che eros, ma non «quello di Parmenide sempre simile a se stesso ma quello di Eraclito che si realizza in continuo divenire». A veder confuso l’essere con l’eros,e il suo pensiero parmenideo con Eraclito, Heidegger si sarebbe gettato nel Reno. O banalità del tipo: «A me sembra che la nostra vita sia dominata dall'istinto di sopravvivenza » (ma davvero?) «l’infanzia è l’innocenza» (ma dai), «sono innocenti gli animali perché vivono secondo la loro natura senza consapevolezza» (ma sul serio?). «La desideranza che ci pervade coincide con la vita. Desideriamo la vita perché sappiamo che moriremo» (ma non mi dire). «Trovo molto significative sia le parole del Getsemani sia quelle del Golgota» (ma no, in duemila anni nessuno aveva dato peso alle parole di Gesù). E poi citazioni dannunziane di tre pagine e insensate autocitazioni dal proprio romanzo ancora più lunghe. Per finire: «Se volete un gergo più filosofico: l’ente che io sono è stato colorato di Eros»; no, questo non è gergo filosofico, è solo tintura. Come definire la filosofia erotica di Scalfari? Direi sciampismo. Tanto sapone, nessuna sostanza. Pensiero ridotto a chioma; non psicologia ma tricologia. A questo punto meglio Luciano De Crescenzo che vuol dilettare con la filosofia e non ergersi a maestro. Non ho antipatia per Scalfari, anzi. E non ce l’ho con lui; ognuno, me compreso, ha un gran giudizio di se stesso. Lui confessa la sua boria e boriosamente la ribattezza «albagia», per nobilitare pure la presunzione. Ma capisco e rispetto comunque il gran giornalista e la sua età; anzi, all’inverso dalle mie intenzioni, dopo il libro ho rivalutato il giornalista rispetto all’umanista. Quel che non sopporto è questa “repubblica delle lettere” così falsa e così cortigiana che incensa senza leggere o legge senza il minimo senso critico. Ma possibile che nessun filosofo o scrittore, nessuna libera intelligenza, senta l’impulso onesto di indignarsi davanti a queste venerate imposture e insorga per restituire verità a persone, idee e autori? L’atroce domanda che poi sorge, che sconforta e consola al tempo stesso, è: quante opere acute e profonde nelle quali si avverte il respiro della bellezza, il tormento dell’intelligenza e il soffio della vera cultura, vengono negate e ignorate, mentre si esaltano i palloni gonfiati? È questo che fa rabbia, non la canuta albagia di un distinto signore in età grave.
(Liberamente adattata da: Marcello Veneziani, Il Giornale, 26 maggio 2011)
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