L’ultimo
numero del mensile dei paolini “Jesus” ha dedicato
la copertina e un trionfale dossier di 33 pagine alla comunità di Bose e al suo fondatore e priore Enzo
Bianchi.
Nei
rilanci che il dossier ha avuto sui media, la maggiore evidenza è stata data a
un lamento che Bianchi canta e ricanta da anni: sull’afonia del laicato.In politica e nella Chiesa, dice, i laici “è come se non ci fossero più”, perché “la voce che spettava loro l’hanno assunta alcuni vescovi”.
Al silenzio, però, anche Bianchi dà il suo personale contributo, questa volta come le tante volte precedenti. Mai che dica fino in fondo, “apertis verbis”, con chi se la prende e perché. Mormora e allude. Lascia intuire. Ma nomi e cognomi, zero.
Eppure i suoi sottintesi bersagli non sono da poco. Sono i vertici della Chiesa italiana e mondiale.
Nell’intervista che ha dato a “Jesus”, Bianchi applica questo suo dire e non dire prima alla Chiesa universale, alludendo al motu proprio “Summorum pontificum” come a causa aggravante dei suoi mali:
“La Chiesa tutta vive in uno stato di depressione, in cui le convinzioni forti appaiono solo quando sono contro gli altri, in una guerra continua di fazione. Altrimenti, sembra che nessuno sia convinto di niente. La cosa più grave è che il cuore di tutto questo scontro è l’Eucaristia: i servi della comunione ne fanno luogo di divisione”.
E poi alla Chiesa italiana, con nel mirino la leadership attuale e passata della conferenza episcopale:
“Per ciò che riguarda la Chiesa italiana, in particolare, vedo due mali. Il primo è l’afonia del laicato: i cristiani in politica è come se non ci fossero più, c’è stata sovente una forma di sconfinamento, per cui la voce che spettava loro l’hanno assunta alcuni vescovi. Tutto questo ha provocato nell’ultimo ventennio una situazione un po’ desolata, non c’è più soggettività laicale. Forse oggi si intravede un risveglio. Spero sia un nuovo inizio dopo un tempo di depressione. L’altra cosa è che vorrei si capisse che ci sono urgenze molto forti. È significativo che si sia scelto di parlare dell’educazione negli Orientamenti pastorali del decennio. Secondo me, però, è inutile pensare di trasmettere una fede alle future generazioni senza fornirle di una grammatica umana: hanno bisogno di sapere cosa la fede gli dice nel quotidiano, nella vita, negli affetti, nelle storie d’amore, nel lavoro, nell’incontro con gli altri. Da queste due urgenze dipende il futuro. Dobbiamo smettere di pensare che abbiamo un cattolicesimo popolare che tiene. La Chiesa in Belgio aveva questa situazione venti anni fa, adesso è il Paese più scristianizzato d’Europa. Bisogna essere meno sicuri, meno autogarantisti, meno autoreferenziali”.
Ma non è tutto. Bianchi cita e denuncia due casi di “falsità” nella Chiesa e nella sua stessa comunità monastica, a suo dire gravissimi. È la prima volta che lo fa. Ma di nuovo, lasciando tutto nel vago:
“Negli ultimi anni ho avuto l’esperienza della falsità, innanzitutto nella Chiesa: sia chiaro, fin dall’inizio ho avuto anche inimicizie e ho vissuto incomprensioni, si sa che non fummo molto accettati. Ma più di recente è accaduto che qualcuno mi sorridesse e poi spargesse calunnie su di me. Mi ha fatto un male terribile. È un personaggio di Chiesa, che mi ha fatto conoscere una falsità che non mi attendevo. Poi c’è stata falsità anche qui al nostro interno, non verso di me in particolare, ma verso tutta la comunità. Non pensavo di poter vivere, passati i 60 anni, una tale destabilizzazione interiore da restare in alcuni momenti profondamente confuso. Non avevo mai provato questa esperienza: la cattiveria sì, la si può capire, ma la falsità non è nel mio orizzonte. È stata la prova più dura che ho sofferto nella mia vita nella Chiesa e nella vita monastica”. È questa la tanto lodata “parrhesia” del priore di Bose?
(Fonte: S. Magister, Settimo cielo, 8 settembre 2011)
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