Un
mattone dopo l’altro e cominci a immaginare come sarà la casa. Moderna,
modernissima, anzi, di più: postmoderna. E infatti nell’architettura trovi
rappresentati, un po’ qui un po’ lì, tutti gli stili, nessuno escluso.
Può
davvero piacere a chi la sta costruendo, a chi l’abiterà, una casa così, ti
chiedi, mentre lei cresce e cresce e cresce? Sembra tanto quegli appartamenti
già arredati, che si affittano nelle grandi città agli studenti universitari:
mobili recuperati da vecchie soffitte, stoviglie scheggiate e spaiate, oggetti
di scarto in un’accozzaglia che cerchi di farti piacere ma non si può dire –
no, non si può – che sia “bella”, e cioè come la vorresti davvero.Questo prova il tuo cuore, mentre la casa si mostra, mostruosa.
E però, siccome ti incuriosisce sapere come sarà davvero, una volta finita, chiedi.
“Non c’è un architetto, non c’è un progetto”, la risposta. Son passati quei tempi: vecchiume! Ognuno può metterci, ora, liberamente, un pezzetto di sé, perché le case del futuro sono così: niente disegni e niente regole. Via libera al gusto, alla fantasia, ai desideri del momento. Si improvvisa. Guarda qui, ti dice Assia Baudi di Selve, porgendoti il suo ultimo articolo su Io Donna, il supplemento del Corsera. “Leggi e capirai”. Capirò?
Comincio a leggere, partendo dal titolo. “Se la mamma sceglie l’autosufficienza”.
Scrive la giornalista: “Negli Stati Uniti più della metà delle madri sotto i trent’anni non è sposata. Per il New York Times è la ‘nuova normalità’. Se il ‘per sempre’ ormai non è più una certezza, il desiderio di maternità resiste, anzi vince. E va oltre il rapporto di coppia (e le sue complicazioni). Nella relazione esclusiva e autonoma con i figli, alcune donne trovano forza e serenità”. Andando avanti con la lettura capisci che Io Donna ne ha incontrate alcune. “Tutte single, orgogliose e felici. Tutte impegnate a costruire nuovi modelli affettivi”.
E Assia Baudi di Selve te le presenta, queste madri single, orgogliose e felici. La prima: Benedetta Emmer, 46 anni. “Ha fatto una figlia da sola quattro anni fa con l’inseminazione artificiale a Londra”, scrive la giornalista. Che poi passa la parola alla protagonista. “Ho avuto a lungo sensi di colpa, perché sono omosessuale e stavo imponendo a mia figlia un unico genitore, impresentabile. Poi ho deciso di combattere: nessuno può permettersi di giudicare se sono una buona madre, né la legge, né Dio”. Alla domanda chi sono le figure di riferimento maschili, così risponde: “I padri degli altri bambini, i mariti delle mie sorelle, il compagno di mia madre”. “Il donatore scelto – aggiunge – è ateo, lavora nella City di Londra e ha donato il suo seme a un’associazione di gay e lesbiche di comune accordo con la moglie”. La seconda è Maria Grazia Ciaccio, 45 anni, che ha deciso di chiamare la figlia Gea “perché è un nome corto e immenso. È la Dea di tutto”. La terza: Guendalina Salini, 39 anni, artista. “L’unica cosa che non potrei dire di me è che sono single: al contrario mi sento legata da forte empatia a varie persone e realtà locali, a valori di condivisione e di sostegno reciproco che muovono reazioni di bellezza, sostenibilità, mediterraneità. Insieme con Oikos Sostenibile e con l’Accademia del Rinascimento Mediterraneo, lavoriamo per fondare una nuova famiglia umana”.
La quarta: Viola Naj Oleari, 36 anni, disegnatrice di gioielli. “Tutto è più facile quando ti relazioni solo con tuo figlio, senza dover pensare alla gestione della coppia. C’è più libertà”.
Un’altra: Barbara Pullera, 37 anni, racconta: “Se avessi continuato ad aspettare il grande amore, le possibilità biologiche di avere un bambino si sarebbero ridotte: avevo già 34 anni”. E così è volata in Danimarca per l’inseminazione assistita e ha scelto un donatore danese alto, perché è piccola di statura e soprattutto “aperto”. “Fare un figlio con un compagno sbagliato, o un amico, avrebbe reso tutto più complicato. Così non devo litigare con nessuno. E se mi innamorerò sarà una scelta libera non condizionata dai bisogni: io un figlio ce l’ho già”.
Presentate alcune tra le ideatrici & abitatrici di queste case postmoderne, siccome Io Donna è un supplemento colto di un quotidiano colto – mica un giornaletto di gossip! – non può mancare il marchio di autorevolezza che si addice ad un’inchiesta di tutto rispetto. Eccolo. L’occhio critico di Lella Ravasi Bellocchio (nomen omen), che psicanalizza non solo le protagoniste dell’articolo, ma, per deformazione professionale, le donne tutte, allargandosi all’intera società. E infatti: “Tutto è in rapida trasformazione oggi – commenta – anche le relazioni, e vale la pena essere aperti a scelte che propongono nuovi modelli affettivi”. Vale davvero la pena, ti chiedi?
Ho letto il servizio fino in fondo, due volte.
Immagino questa casa in cui le donne “fanno” i figli come si fanno le torte, e li “fanno” da sole. Una casa in cui i maschi di riferimento per i bambini sono tutti e nessuno (i padri degli altri bambini, i mariti delle sorelle, i compagni delle madri…). In cui i donatori di seme sono scelti a catalogo e con cura: atei, benestanti, ideologizzati, politically correct; alti se si è basse, bassi se si è un po’ troppo alte… “Giusti”, insomma. Come immaginando, in barba alle circostanze della vita, in barba al libero arbitrio, che i figli saranno un mix tra queste madri “orgogliose, felici, impegnate” e quei padri che vedono poco o non vedranno mai: atei, benestanti, ideologizzati, politically correct, “aperti”, soprattutto… “Giusti” come li ha in mente la loro mamma, che – c’è da scommetterci – se però le parli del progetto T4 e dell’eugenetica nazista strabuzza gli occhi inorridita. Non capisce o non vuole capire?
Una casa al cui ingresso c’è il cartello divieto-d’entrata-per-i- maschi, un Don’t disturb bene in vista o, forse, l’orario per le visite, come in ospedale. In cui vige un unico comandamento: l’autodeterminazione. Dove “matrimonio” e “famiglia” sono parolacce impronunciabili e un uomo accanto è un impiccio, una complicazione. Una casa in cui l’innamoramento è sganciato dall’amore, che è sganciato dall’atto sessuale, che è sganciato dall’apertura alla vita. In cui vai a capire cosa significa che “la nuova famiglia umana” (?) sarà “sostenibile e mediterranea” (?).
Forse, come la figlia di Maria Grazia, la casa si chiamerà Gea, “la Dea (lettera maiuscola ndr) del tutto” (?).
Un mattone dopo l’altro ed è ormai chiaro come sarà la casa che l’ideologia dominante, persuasiva e pervasiva, impone come la “nuova normalità”. Certo, un campione di così poche donne può essere, anzi è, un campione di scarso valore statistico. Ma il messaggio è chiarissimo e non deve passare inosservato. Non può.
Occorrono dunque uomini e donne al lavoro: un popolo intero. Occorrono braccia, energie, mattoni nuovi. Occorre tornare al disegno, all’origine, al Progettista. Senza, non c’è casa che regga alle insidie del tempo, alle mode…
(Fonte:
Luisella Saro, Cultura Cattolica, 14 aprile 2012)
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