Il Card.
Ravasi avrebbe dato come fine al suo famoso “Cortile dei Gentili” quello di
essere il "laboratorio di un dialogo di pari dignità tra atei e credenti
che purifichi gli atteggiamenti profondi di entrambi nei confronti di Dio e
della fede".
Ora mi
sembra che qui il Cardinale confonda la dignità delle persone con la dignità
delle idee. E’ ovvio che tutte le persone, credenti o atee, hanno pari dignità
di persone come esseri dotati di ragione, parimenti chiamati alla salvezza, ma
questo non vuol dire assolutamente che le idee dei credenti abbiano “pari
dignità” delle idee degli atei. Questo è un grave pregiudizio relativista oggi
purtroppo assai diffuso e meraviglia molto di trovarlo sulla bocca di un
Porporato circa il quale molti fanno il nome come auspicabile nuovo Pontefice.Infatti ormai da più di due secoli, con l’affermarsi del diritto alla libertà di coscienza e di religione nella sua versione liberal-illuministica favorevole all’indifferentismo ed alla relativizzazione di tutte le religioni, effetto, questo, del soggettivismo e particolarismo protestanti, si è diffusa nella cultura ed oggi in certi ambienti cattolici “avanzati” l’idea che la convinzione dell’esistenza di Dio e quindi la fede cristiana non sono un sapere oggettivo con diritto di essere da tutti accolto e pubblicamente riconosciuto, ma una semplice opinione più o meno particolare o soggettiva tra altre anche opposte, comprese l’irreligiosità e l’ateismo, di pari dignità, parimenti rispettabili e legalmente riconosciuti dalla società civile e dallo Stato.
Ora qui dobbiamo fare un’importante distinzione da una parte fra il diritto civile alla libertà religiosa e dall’altra il valore oggettivo della religione come virtù naturale, comprendente l’idea dell’esistenza di Dio nonché la religione soprannaturale, ossia la fede cristiana. Davanti allo Stato moderno, laico e pluralista, nato dalla collaborazione di credenti e non-credenti (vedi per esempio gli Stati Uniti, la Francia o la nostra Costituzione Italiana), ogni religione o idea religiosa sono legittime ed ammesse, cattolica o non cattolica, compreso lo stesso agnosticismo religioso, salvo il rispetto delle norme fondamentali della convivenza civile stabilite dalla Carta Costituzionale e dai diritti universali dell’uomo (vedi ONU). Tale principio è riconosciuto anche dal Concilio Vaticano II (dichiarazione Dignitatis humanae).
Ma la questione in se stessa del valore della religione e in questo caso dell’idea dell’esistenza di Dio, ossia la questione del teismo o del monoteismo non può assolutamente esser ristretta od omologata a questo ambito, che non entra propriamente nella specificità del problema stesso, ma la sua soluzione spetta alla Chiesa, al di fuori e al di sopra dei termini riservati alla competenza dello Stato e della società civile. Abbiamo infatti qui l’altro essenziale termine della distinzione su annunciata ed è il valore della religione questa volta non relativamente al bene dello Stato, ma alla salvezza dell’umanità, e quindi di competenza della Chiesa.
È questo non il punto di vista dello Stato che tutto sommato non ha autorità di determinare il vero in fatto di religione e soprattutto di religioni rivelate qual è il cattolicesimo, ma è il punto di vista dello stesso cattolicesimo. Da tale punto di vista è evidente per ogni cattolico che teismo o ateismo, fede o incredulità non sono due opinioni entrambe legittime come altre, due optional dove ognuno può scegliere ciò che preferisce senz’alcuna conseguenza importante, positiva o negativa che sia, rispetto alla scelta compiuta.
D’altra parte i valori veri, secondo una visione liberal-indifferentista sarebbero altrove: starebbero nella semplice possibilità di essere liberi e di pensare ciò che si vuole indipendentemente da regole o valori oggettivi religiosi “non-negoziabili”, che non esistono, essendo la verità non un dato oggettivo ed universale ma solo l’effetto di una decisione soggettiva volontaristica (il cogito-volo cartesiano del quale parla Cornelio Fabro).
Bisogna invece ricordare che teismo ed ateismo non sono affatto idee di “pari dignità”, ma occorre dire con tutta la forza possibile, anche sulla scorta dell’importante insegnamento del Concilio Vaticano II, che mentre il teismo è fondato su incontrovertibili prove razionali, l’ateismo è “uno dei fenomeni più gravi del nostro tempo”, quindi niente affatto fondato in ragione, anche se il Concilio, con grande magnanimità e saggezza pastorale, esorta ed indagare, studiare e comprendere quali possono essere i motivi profondi, certo irragionevoli ma pur sempre motivi, che “si nascondono nella mente degli atei”, non per lasciare gli atei nelle loro storte idee, ma al contrario per poterli aiutare a correggersi, a ravvedersi e ad accettare di cuore con convinzione le ragioni inconfutabili e certissime che viceversa conducono la mente umana a sapere che Dio esiste, per poter poi trarre le vitali conseguenze morali che da tale certezza discendono ai fini della salvezza.
Il grave rischio di un certo dialogo tra credenti e non credenti o tra cattolici e non cattolici è oggi quello di un cincischiare inconcludente, di un girare a vuoto o di un menare il can per l’aia, accompagnando il tutto con stereotipate e consunte formule pietistiche di circostanza (“preghiamo per l’unità”…), sotto pretesto dell’evidenziamento di ciò che ci unisce o magari per renderci simpatici, dimenticando che un accordo non fondato su comuni condivise verità non solo non ha nessun valore ma è dannoso per entrambi i dialoganti ai fini di una corretta e salutare vita morale (Probabilmente lo Spirito Santo suggerisce segretamente a questi ecumenisti e dialoganti escursionisti, esibizionisti, confusionisti ed inconcludenti: “Datevi da fare a correggere errori ed eresie ed Io mi farò vivo! Non fatemi venire il latte alle ginocchia! Finitela con i salamelecchi e le sfilate in costume e cominciate a fare sul serio!”).
Per questo bisogna dire a chiare lettere che il dialogo che il credente deve portare avanti con l’ateo, se da una parte deve cogliere comuni valori o verità razionali sulla base del fatto che l’uno e l’altro sono esseri razionali, dall’altra tale dialogo richiede da parte del credente che nei dovuti modi, tempi e circostanze – opportune et importune – egli, con convincenti argomentazioni, fine tatto ed autentica testimonianza di carità, sappia guidare il non credente o l’ateo alla conoscenza di Dio in vista di un rapporto con Dio che possa essere fruttuoso ed utile per la sua salvezza, mentre d’altra parte richiede nel non credente la rinuncia ad ogni orgoglio e una sincera apertura alla verità.
Ciò che va purificato, quindi, non è il convincimento del teista in quanto tale, ma quello dell’ateo. Anzi l’atteggiamento dell’ateo, più che “purificato” (come se fosse qualcosa di sostanzialmente buono che abbia delle impurità da togliere), va semplicemente soppresso e sostituito dalla fede in Dio. Sarebbe come parlare della purificazione di una malattia: va curata e basta, per vivere.
Certo questo non significa che qualunque errore non abbia una parte di verità che può essere recuperata, ma l’ateismo in quanto tale è un errore che come tale va semplicemente respinto: non vi sono aspetti positivi da recuperare, se non forse l’esigenza di un assoluto, con la caratteristica che nell’ateismo l’assoluto è l’uomo anziché Dio, ma l’ateo tuttavia, almeno nelle sue dichiarazioni, respinge ogni idea di assoluto, appunto perché gli richiama l’idea di Dio.
Il convincimento teistico, al contrario, benché accidentalmente possa essere purificato in soggetti non sufficientemente preparati, è sostanzialmente un pensiero purificatore. Il parlare quindi di una “purificazione” di entrambe le convinzioni sia pur orientandole a Dio, mette senza discrezione sullo stesso piano la verità e l’errore, la fede e l’incredulità, cosa che non ha nessun senso e rispecchia una mentalità doppia la quale, per parlare col Vangelo, vorrebbe servire due padroni, contro il perentorio comando del Cristo: “Il vostro parlare sia sì sì no no; il resto appartiene al diavolo”.
Il dialogo teismo-ateismo non è uno scambio di idee tra amici alla pari, con sorrisi, pacche sulle spalle e lodi reciproche, ma va paragonato al rapporto medico(teista)-paziente(ateo), per quanto ciò possa sembrare umiliante per l’ateo. Ma se costui non si ritiene passibile di essere corretto, il dialogo diventa inutile e una perdita di tempo. Certo non deve mancare la cordialità, ma soprattutto non deve mancare la serietà, sincerità e il senso di responsabilità. Non si può escludere a priori la possibilità dello scontro, se c’è in gioco la verità. Meglio la franchezza che una cortesia equivoca e falsa.
Se il credente inoltre dev’essere caritatevole, comprensivo e tollerante verso il non-credente, la fede del credente non può essere un palleggiamento o un barcamenarsi, come si è espresso infelicemente anche il Card. Martini, tra il credere e il non-credere, tra il sì e il no, ma dev’essere atteggiamento chiaro, fermo e deciso di adesione alla verità della Parola di Dio a qualunque costo, fosse pur quello della vita. La fede dei martiri non è certo quella che intende il Card. Martini.
La vera fede che ci insegna il Vangelo è la base di un dialogo proficuo tra credente caritatevole e non credente onesto, che non sia un gioco a rimpiattino dove ci si può permettere di saltellare allegramente da incoscienti tra una mossa e l’altra, mentre nel suddetto dialogo la posta in gioco è troppo alta perchè ci si possa prendere il lusso di mettere repentaglio l’anima propria e quella di chi ci ascolta.
(Ma.La.
da: P. Giovanni Cavalcoli, Il Cortile dei Gentili, in Riscossa Cristiana, 27
febbraio 2013)
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