In tempi in cui le banche d'affari falliscono dopo aver arricchito con assurdi superbonus i propri manager e mandato sul lastrico ignari investitori e in cui finanzieri senza scrupoli speculano sulla pelle della gente, in società in cui profittatori, corrotti e corruttori trovano comunque spazio e i furbastri evadono le tasse perché tanto ci sono i poveracci a pagarle, un moderno Robin Hood combatterebbe proprio su questi fronti, nascosto nelle inestricabili foreste della finanza e del fisco. E non faticherebbe ad avere un certo seguito. Ma gli eroi, di questi tempi, si vedono solo al cinema. Quindi è lì che bisogna andare anche oggi se si vogliono prendere le parti di un uomo che, rispondendo a un poco ortodosso ma efficace concetto di giustizia, toglie ai ricchi per dare ai poveri. Stavolta a riproporre il leggendario personaggio ci pensa la premiata ditta Ridley Scott e Russel Crowe, regista e protagonista de Il gladiatore per intendersi, che con il loro Robin Hood presentano un aspetto sconosciuto dell'eroe. E l'idea non è affatto male: raccontare una storia diversa, originale, differente dalle altre fin qui narrate; una vicenda che, con diverse libertà rispetto alla nota leggenda, finisce laddove le altre incominciano.
Tutti, infatti, finora, avevano raccontato del giustiziere che, messo al bando da un re avido e meschino, diventa fuorilegge e lotta contro i ricchi prepotenti per aiutare i miserabili vessati. Ma è bene scordarsi di Walter Thomas (Ivanhoe, 1913), di Douglas Fairbanks (Robin Hood, 1922), di Errol Flynn (Le avventure di Robin Hood, 1938), dei simpatici protagonisti del cartoon Disney (1973) e più di recente di Sean Connery (Robin e Marian, 1976) e di Kevin Costner (Robin Hood: il principe dei ladri, 1991). E anche della classica lady Marion, qui mostrata come una battagliera vedova non più giovane (Kate Blanchett), del perfido sceriffo di Nothingam ridotto a insignificante comparsa. L'intento di Scott è quello di umanizzare il mito, spiegando come una persona normale possa trasformarsi in eroe dei diseredati e paladino della giustizia. Il risultato è quanto ci si aspetta da un regista che sembra aver intrapreso con decisione il filone epico e da un attore che nei panni di Massimo Decimo Meridio aveva infiammato gli spettatori scatenando l'inferno prima contro i barbari e poi nel cuore di Roma: un film avvincente, spettacolare, ben girato, con riprese stile Il gladiatore, con un cast di prim'ordine con Max von Sydow e William Hurt al fianco di Crowe a Blanchett.
Gli ingredienti sono più che sufficienti - scenografie grandiose, battaglie spettacolari, intrighi di corte, un grande amore che sboccia dalla dissimulazione, il caso che stravolge le esistenze e indirizza la storia - per un colossal in piena regola, da oggi nelle sale, significativamente scelto per aprire in anteprima mondiale la prestigiosa rassegna cinematografica di Cannes, unica concessione alla spettacolarità in un cartellone contrassegnato dalla tipica autorialità transalpina.
Come ne Il gladiatore e ne Le crociate, anche in questa produzione di Scott non mancano libertà rispetto alla storia, come la sorte di re Riccardo, ed eccessi narrativi, il più evidente l'inatteso arrivo di lady Marion, in groppa a un destriero, con corazza e spada, sulla scena dell'ultima, decisiva battaglia per le sorti del trono inglese: una sorta di sbarco in Normandia, piuttosto inverosimile, trasferito al medioevo. Ma nel complesso lo spettacolo è godibile. E comincia con l'arciere Robin Longstride (questo il cognome del futuro fuorilegge) di ritorno dalla terza crociata in Terra Santa al seguito di Riccardo cuor di leone, re impegnato con le sue residue truppe a saccheggiare la Francia per cercare di recuperare parte di quanto speso nell'impresa. Durante un assedio il sovrano muore. Robin, insieme ad alcuni commilitoni, si sente sciolto dal vincolo che lo lega all'esercito e decide di tornare in Inghilterra, da dove manca da quando era bambino. Qui trova una nazione impoverita da infinite guerre, oppressa da un re inadeguato e interessato solo a spremere i sudditi con innumerevoli gabelle, indebolita e vulnerabile alle rivolte interne, e con lo spettro di un'imminente invasione francese.
Per una serie di circostanze, Robin si ritrova a Nothingam con un pugno di compagni d'armi, divenendo un eroe improbabile e tuttavia perfetto nel ruolo di salvatore di un paese che, sull'orlo di una guerra civile, appare incapace di opporsi all'invasore. Da sconosciuto arciere, si ritroverà, nei panni di un nobile cavaliere del quale assume momentaneamente nome e ruolo, alla testa dell'esercito del re Giovanni al quale restituirà un regno nuovamente glorioso. Ma la riconoscenza non è una dote del nuovo re e ben presto Robin da eroe diventa fuorilegge, assieme ai suoi amici Little John, frate Tuck e gli altri merry men, costretto a nascondersi nella foresta di Sherwood. Occorreva stabilire un retroscena storicamente plausibile e la vicenda personale del protagonista viene fatta ruotare attorno alla prima stesura della Magna Charta, avvenuta a Runnymede nel 1215 dopo la rivolta dei baroni contro re Giovanni. Ma Scott si prende la libertà di attribuirne l'origine nientemeno che al padre di Robin.
Quanti amavano lo Scott di Blade runner si diano pace. Il regista sembra aver trovato una nuova dimensione nel colossal epico. E se narrando la storia del generale romano divenuto gladiatore affrontava i temi della dittatura e della relativa ribellione, e raccontando le crociate descriveva il contrasto tra fanatismo e fede, tra cinica malvagità e senso dell'onore, in questo prequel, come si dice oggi, affronta i temi della giustizia e della libertà. Con una messa in scena maestosa, che però non riesce a emozionare fino in fondo. E un po' si rimpiangono le bravate di Robin Hood e Little John che "van nella foresta".
(Fonte: Gaetano Vallini, ©L'Osservatore Romano, 15 maggio 2010)
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