martedì 22 giugno 2010

Lettera di un liberale difensore della privacy al maestro censore Saviano

Lettera aperta del vicepresidente dei senatori del Pdl Gaetano Quagliariello a Roberto Saviano sul tema delle intercettazioni e sul diritto alla riservatezza sancito dalla Costituzione.
Egregio Roberto Saviano, sono quello di cui non si ricorda il nome, quello che si chiama più o meno come il centravanti del Napoli. A quanto pare, c'è un problema tra di noi. E vengo subito al punto. Sul tema delle intercettazioni abbiamo letto in questo periodo diverse sue affermazioni. Lei ha accusato la maggioranza di voler "troncare la libertà di informazione in nome della difesa della privacy", sostenendo dunque che la privacy, pur essendo come lei dice "uno dei pilastri del diritto e della convivenza civile", dovrebbe inchinarsi di fronte alla libertà di stampa. Lei ha scritto che "pubblicare le intercettazioni soltanto quando c'è il rinvio a giudizio genera un enorme vuoto". Che i politici avrebbero paura delle intercettazioni perché esse mostrerebbero "come si costruisce il meccanismo del potere" (a tal proposito ha preso a esempio, e la cosa è significativa, un'inchiesta che è finita giudiziariamente nel nulla ma ha portato sui giornali pagine intere di conversazioni prima che i magistrati le mandassero al macero per assoluta irrilevanza penale).
E ancora. Lei ha sostenuto che vi sono alcune persone per le quali anche il più intimo margine di vita privata debba essere violato e scandagliato (e divulgato). Che le garanzie degli indagati, anche quelle previste dalla Costituzione, devono cedere di fronte all'esigenza della stampa di far conoscere senza indugi all'opinione pubblica "quei dati che poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare". Infine, lei ha difeso la libertà dei giornalisti di poter fare il proprio lavoro senza divenire oggetto di insulti sul piano personale.
Di fronte al suo pensiero, liberamente veicolato attraverso ripetuti articoli di giornale, rivendico a me stesso (e a tanti altri) una concezione profondamente diversa, per certi versi diametralmente opposta; e questo non per capriccio o per amore di polemica, ma per una precisa scelta culturale e politica che non ho difficoltà a motivare.
Noi siamo consapevoli che il tema delle intercettazioni chiama in causa diritti diversi e concorrenti, come il diritto alla riservatezza e il diritto all'informazione. Entrambi sono riconosciuti e tutelati dalla nostra Costituzione, rispettivamente all'articolo 15 e all'articolo 21, e questo ci impone di armonizzarli e trovare il migliore equilibrio possibile, ben sapendo che si tratta di un conto a somma zero in cui non si possono dilatare i margini di libertà da una parte senza farlo a scapito dell'altra. Ma è evidente che i padri costituenti hanno stabilito che il diritto alla riservatezza venisse prima del diritto di cronaca: non solo per una ragione di progressione numerica, ma anche perché ad esso hanno attribuito un aggettivo - "inviolabile" - che il diritto alla riservatezza condivide soltanto con la libertà personale, con la libertà di domicilio e con il diritto di difesa in giudizio.
La nostra posizione non è dunque improvvisata o frutto di chissà quale calcolo o convenienza. Essa affonda le radici nella Carta fondamentale, ed ha alle spalle una profonda sedimentazione di cultura giuridica, la stessa che nel corso dei decenni ha irradiato la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, fino alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che oltre a riconoscere (art. 8) il diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancisce che la stessa libertà di espressione (art. 10) debba essere esercitata con responsabilità e comporti la salvaguardia della riservatezza delle persone.
E' innegabile che la privacy sia un concetto a geometria variabile, che si allarga o si restringe a seconda dell'esposizione pubblica di ognuno. Ma è altrettanto evidente che un margine di riservatezza debba essere riconosciuto a tutti, dall'uomo più potente a quello più lontano da qualsiasi riflettore.
Allo stesso modo, nessuno mette in dubbio la libertà di stampa che è sacrosanta, ma si richiede che essa venga interpretata con responsabilità. A questo proposito, la previsione della pubblicazione per riassunto degli atti di indagine contenuta nel disegno di legge approvato in Senato dovrebbe essere difesa innanzi tutto da quei giornalisti che tengono al decoro della loro professione. Essa infatti valorizza il loro ruolo attivo nella proposizione delle notizie: la capacità di salvare l'essenziale rifiutandosi di essere strumento anche involontario della violazione della dignità delle persone. E scoraggia peraltro il malvezzo da parte di alcuni magistrati di riempire gli atti giudiziari di una selva di informazioni non pertinenti sotto il profilo penale ma funzionali alla gogna mediatica. Non le sfuggirà che questa pessima abitudine ha contribuito non poco a trasformare il giornalismo d'inchiesta nella mortificante, pedissequa e talvolta acritica propalazione di atti d'accusa (le cosiddette "lenzuolate"), se non altro per esigenze di concorrenza editoriale.
Quanto infine alla volontà di assicurare che vi sia una fase delle indagini durante la quale gli atti siano protetti da un efficace regime di riservatezza, è evidente che si tratta di una iniziativa finalizzata non a limitare l'attività degli investigatori e degli inquirenti (che ovviamente è cosa diversa dalla sua divulgazione a mezzo stampa) ma al contrario a garantirne la serietà e il sereno svolgimento.
Per queste ragioni, egregio Roberto Saviano, fermo restando il rispetto per le sue idee, confermo di trovarmi in ferrea contrapposizione in tema di intercettazioni. Rispetto il suo lavoro e il suo romanzo (per quanto, personalmente, Attilio Veraldi con il suo "Naso di cane" sulla camorra mi ha insegnato di più e in maniera più pregnante). Non ho mai affermato che le sue posizioni offendono l'Italia. Ma, sul tema che in queste settimane appassiona l'opinione pubblica, e che al fondo chiama in causa l'idea che ognuno di noi ha della persona e della sua libertà, esse denotano una concezione politica e culturale assolutamente antitetica alla mia e rispetto alla quale, proprio in nome di quella libertà di espressione alla quale lei costantemente si appella, rivendico il diritto di manifestare un'opinione contraria e di chiedere al mio partito di aprire un confronto serio, alto e libero da sudditanze culturali di qualsiasi tipo.
E' singolare che proprio nel momento in cui lei si erge a paladino della libertà di manifestazione del pensiero, censuri di fatto come illegittimo l'esercizio di quella stessa libertà da parte di un'altra persona, e addirittura arrivi a negare a quella persona la sua identità. Forse indicandomi come "quello che si chiama come il giocatore del Napoli" lei pensava di offendermi. Invece devo confessare che per me è un onore. Tifo infatti per quella squadra da quando sono bambino. E condivido con la curva del Napoli sentimenti certamente meno degni di essere ammessi nei salotti nei quali lei dialoga con Vargas Llosa, ma che forse sono i sentimenti delle tante storie ignobili di intercettazioni con le quali si è fatta strage di umanità, e che nessuno - nemmeno lei - ha il diritto di espellere dal dibattito pubblico del nostro Paese.

(Fonte: Gaetano Quagliariello, Il Foglio, 18 giugno 2010)

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