Per una battaglia politica e culturale che si rispetti, bisogna dichiarare apertamente il proprio obiettivo, con argomentazioni solide a sostegno, ed essere disposti a un confronto franco e aperto con gli interlocutori. Ma non è andata così a chi si è adoperato per introdurre la Ru486, la pillola abortiva, in Italia.
Dopo anni di dibattito pubblico, ancora oggi nella gran parte dei cosiddetti grandi media il metodo abortivo farmacologico è spacciato come facile, più sicuro e meno doloroso di quello chirurgico, in barba a tutte le evidenze scientifiche e di pratica clinica. Le morti delle donne dopo l’assunzione dei farmaci abortivi vengono ignorate, sottovalutate o addirittura negate.
Continuiamo a sentirci ripetere che altrove la Ru486 si usa tranquillamente da vent’anni, senza però che sia detto che in quegli stessi Paesi dov’è più diffusa – Francia, Gran Bretagna e Svezia, gli unici con percentuale di uso a due cifre – la situazione è di allarme sociale, e non solo per le morti: i numeri degli aborti sono costanti ed elevati, da tempo, o continuano ad aumentare, con un’incidenza sempre più alta fra le minorenni. Non si capisce, francamente, cosa avremmo da imitare, almeno in questo ambito. Dovrebbe accadere piuttosto il contrario (fermo restando che anche un solo aborto è di troppo, e che neppure i nostri numeri, migliori di quelli degli altri Paesi, possono tranquillizzarci).
Se ben tre pareri della più autorevole istituzione nazionale in campo sanitario – il Consiglio superiore di sanità – espressi in anni diversi, con componenti e direzioni differenti, arrivano sempre alla stessa conclusione (per chi usa la Ru486 è necessario un ricovero ordinario in ospedale fino a che l’aborto è completato), i paladini della pillola abortiva anziché porsi qualche domanda in merito gridano al «boicottaggio». Non solo: contestando la scelta del governatore del Lazio Renata Polverini – posti letto dedicati a chi abortisce con la pillola – c’è chi ha affermato che sarebbe «un’esagerazione: del resto per i casi di appendicite non è così».
E allora, giù la maschera e affrontiamo il vero problema posto dalla Ru486: l’aborto può essere considerato un atto medico come tanti altri, oppure è comunque un grave problema sociale, pure per chi ne condivide la legalizzazione? Anche tra chi ritiene che l’aborto sia sempre e comunque la soppressione di un essere umano (e tale rimane, indipendentemente dal metodo) la risposta che si dà a questa domanda non è indifferente. Se per la nostra società l’aborto è comunque un disvalore, una piaga sociale pure quando se ne ammette la legalizzazione, allora ci sono le condizioni culturali e politiche per combatterlo. Se invece è ridotto a un atto medico, una richiesta privata al servizio sanitario nazionale, allora è un fatto che riguarda solamente chi lo chiede e chi lo esegue.
La Ru486 serve a mascherare culturalmente l’aborto, nascondendolo dentro una scatola di pillole, che si possono prendere pure a casa propria, anche quando sarebbe necessario per la salute della donna rimanere in ospedale. È l’aborto a domicilio il vero obiettivo dei sostenitori della Ru486, perché solo in questo modo abortire diventa un fatto esclusivamente privato, una questione di scelta fra tecniche mediche.
Allora se ne parli apertamente, senza nascondersi – com’è accaduto ieri, tra manifestazioni pubbliche e articoli di giornale contro la scelta della Regione Lazio – dietro vecchi slogan e inutili pretesti. Ricordandosi però che se questo è lo scopo, bisogna anche dire che la legge 194 non lo prevede affatto, e che non si vuole applicare questa legge ma cambiarla come si è già fatto nella vicina Francia, rendendo così legittimo l’aborto a domicilio. È questa la vera posta in gioco: lo si dica con chiarezza.
(Fonte: Assuntina Morresi, Avvenire, 17 giugno 2010)
Dopo anni di dibattito pubblico, ancora oggi nella gran parte dei cosiddetti grandi media il metodo abortivo farmacologico è spacciato come facile, più sicuro e meno doloroso di quello chirurgico, in barba a tutte le evidenze scientifiche e di pratica clinica. Le morti delle donne dopo l’assunzione dei farmaci abortivi vengono ignorate, sottovalutate o addirittura negate.
Continuiamo a sentirci ripetere che altrove la Ru486 si usa tranquillamente da vent’anni, senza però che sia detto che in quegli stessi Paesi dov’è più diffusa – Francia, Gran Bretagna e Svezia, gli unici con percentuale di uso a due cifre – la situazione è di allarme sociale, e non solo per le morti: i numeri degli aborti sono costanti ed elevati, da tempo, o continuano ad aumentare, con un’incidenza sempre più alta fra le minorenni. Non si capisce, francamente, cosa avremmo da imitare, almeno in questo ambito. Dovrebbe accadere piuttosto il contrario (fermo restando che anche un solo aborto è di troppo, e che neppure i nostri numeri, migliori di quelli degli altri Paesi, possono tranquillizzarci).
Se ben tre pareri della più autorevole istituzione nazionale in campo sanitario – il Consiglio superiore di sanità – espressi in anni diversi, con componenti e direzioni differenti, arrivano sempre alla stessa conclusione (per chi usa la Ru486 è necessario un ricovero ordinario in ospedale fino a che l’aborto è completato), i paladini della pillola abortiva anziché porsi qualche domanda in merito gridano al «boicottaggio». Non solo: contestando la scelta del governatore del Lazio Renata Polverini – posti letto dedicati a chi abortisce con la pillola – c’è chi ha affermato che sarebbe «un’esagerazione: del resto per i casi di appendicite non è così».
E allora, giù la maschera e affrontiamo il vero problema posto dalla Ru486: l’aborto può essere considerato un atto medico come tanti altri, oppure è comunque un grave problema sociale, pure per chi ne condivide la legalizzazione? Anche tra chi ritiene che l’aborto sia sempre e comunque la soppressione di un essere umano (e tale rimane, indipendentemente dal metodo) la risposta che si dà a questa domanda non è indifferente. Se per la nostra società l’aborto è comunque un disvalore, una piaga sociale pure quando se ne ammette la legalizzazione, allora ci sono le condizioni culturali e politiche per combatterlo. Se invece è ridotto a un atto medico, una richiesta privata al servizio sanitario nazionale, allora è un fatto che riguarda solamente chi lo chiede e chi lo esegue.
La Ru486 serve a mascherare culturalmente l’aborto, nascondendolo dentro una scatola di pillole, che si possono prendere pure a casa propria, anche quando sarebbe necessario per la salute della donna rimanere in ospedale. È l’aborto a domicilio il vero obiettivo dei sostenitori della Ru486, perché solo in questo modo abortire diventa un fatto esclusivamente privato, una questione di scelta fra tecniche mediche.
Allora se ne parli apertamente, senza nascondersi – com’è accaduto ieri, tra manifestazioni pubbliche e articoli di giornale contro la scelta della Regione Lazio – dietro vecchi slogan e inutili pretesti. Ricordandosi però che se questo è lo scopo, bisogna anche dire che la legge 194 non lo prevede affatto, e che non si vuole applicare questa legge ma cambiarla come si è già fatto nella vicina Francia, rendendo così legittimo l’aborto a domicilio. È questa la vera posta in gioco: lo si dica con chiarezza.
(Fonte: Assuntina Morresi, Avvenire, 17 giugno 2010)
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