giovedì 29 marzo 2012

Togliamogli la Rai

La questione della RAI si profila all’orizzonte del governo Monti come un nodo ancor più complicato di quello dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. “Toglieteci tutto ma non la nostra RAI!”, sembra quasi essere il grido di quel che resta della classe politica italiana, diremo parafrasando la pubblicità di un famoso orologio da polso. Tanto numerosa e anche malgrado tutto “trasversale” è la platea dei sostenitori del “servizio pubblico radio-televisivo”: un retaggio del fascismo giunto intatto sino a noi, qualcosa che in nome della libertà andrebbe semplicemente messo sul mercato, seppur con tutte le dovute attenzioni.
Se lo Stato pretendesse di offrire un “servizio pubblico” della carta stampata gestito da una casa editrice unica con sede in Roma finanziata sia con fondi erariali che con abbonamenti imposti per legge a tutti i suoi eventuali lettori, giustamente tutto ciò verrebbe considerato una patente violazione della libertà di stampa. E di certo, se mai fosse esistito, alla caduta del fascismo tale “servizio pubblico” sarebbe stato abrogato in quanto frutto evidente di quella malaugurata dittatura.
Nel caso invece del “servizio pubblico” radiofonico sorto in Italia in quel medesimo periodo accadde una cosa strana ma significativa: i partiti tornati sulla scena con la democrazia se lo tennero ben stretto e, cosa ancor più strana, i giornali e i loro editori non ci trovarono allora nulla da ridire. Mentre infatti, dopo un periodo di commissariamento, la stampa venne rimessa in libertà, la vecchia EIAR, ribattezzata RAI, continuò a conservare il monopolio della radiofonia, più tardi esteso anche alla televisione. A metà degli anni ‘70 del secolo appena trascorso tale monopolio ebbe infine termine ma – fatto ancor più strano e ancor più significativo – il preteso “servizio pubblico radiotelevisivo” perdurò mentre il relativo abbonamento, ormai insostenibile in quanto tale, venne trasformato in una sorprendente imposta erariale la cui riscossione è affidata alla RAI che ne incamera pure l’intero gettito.
Sopravvenuta poi la crisi e quindi la fine della “Prima Repubblica”, mentre i partiti perdevano perciò il controllo della RAI, il governo effettivo dei suoi programmi e dei suoi contenuti veniva assunto da una sua casta interna di alti dirigenti e soprattutto di conduttori delle sue trasmissioni che, salvo qualche (modesta) eccezione, è rigorosamente di “sinistra” nel senso attuale della parola, parola che oggi è sinonimo di progressista-radicale e in ultima analisi di nichilista. Una casta che ormai ha gettato la maschera e che quindi, lasciatosi alle spalle il modello mitico della BBC o della radiotelevisione pubblica tedesca, senza nemmeno più fingere di fare una programmazione e un”informazione equilibrata si dedica toto corde a un”opera di indiscriminata propaganda della propria visione del mondo e delle proprie preferenze politiche.
All’ombra dell’ideologia giustificativa del “servizio pubblico”, che non passa giorno venga qua e là ribadita dai conduttori delle sue trasmissioni, la RAI è infatti divenuta in larghissima misura una tribuna permanente di indottrinamento progressista-nichilista di massa. Quando si parla di questa situazione di solito vengono alla memoria soprattutto programmi televisivi ma il caso di quelli radiofonici è ancora più grave, tanto più tenuto conto che la ricezione dei contenuti delle trasmissioni radio è ben più forte di quella delle trasmissioni televisive. Per farsi un’idea di come stiano le cose basta sentire programmi come ad esempio “Io, Chiara e l’oscuro”, in onda su Rai-Radio 2 tutte le mattine dalle 10, oppure “Baobab, l’albero delle notizie” in onda ogni giorno dal lunedì al venerdì tra le 15,40 e le 17,30.
A parte però colonne portanti del palinsesto radiofonico come queste, l’odierna cultura “ufficiale” della Rai dilaga comunque dappertutto, fin nelle cosiddette rubriche di servizio. Mi è accaduto di ascoltare una trasmissione rivolta ai camionisti che era quasi del tutto dedicata all’esaltazione dell’omosessualità oppure una trasmissione di consigli medici ginecologici in cui l’aborto volontario veniva dato come un evento di routine. Una mattina della scorsa settimana mi è accaduto di ascoltare prima alcuni minuti di “Io, Chiara e l’oscuro” in cui si commentava il caso di una poveretta che avendo alle sue spalle tre convivenze e poi un matrimonio fallito si domandava come mai il suo più grato ricordo sentimentale fosse quello di un ragazzo che nei suoi anni di liceo l’aveva respinta.
Avrebbe potuto essere un ottimo spunto per un salutare esame di coscienza se avesse scelto non la conduttrice di “Io, Chiara e l’oscuro” ma qualche altro confessore. Si rimanda al “podcast” per quanto concerne le risposte che invece le vennero date, il cui leit motiv era che l’amore più profondo e intenso non è quello corrisposto bensì quello che non attuandosi resta perciò nel libero regno dell’immaginazione (e buona notte). Verso mezzogiorno è stato poi il momento di una rubrica di servizio ove si parlava del costo dei funerali, la cui filigrana era una… scelta di campo a favore della cremazione, evidentemente ritenuta di sinistra e contro l’inumazione, evidentemente ritenuta di destra. A un certo punto la conduttrice ha domandato a un impresario di pompe funebri che stava intervistando se gli stranieri che muoiono in Italia abbiano diritto alla sepoltura anche se irregolari. E alla risposta ovviamente affermativa ha commentato, “Ecco una bella notizia” dando così l’impressione di ignorare qualcosa che dovrebbe sapere chiunque, e che è tra l’altro tipicamente legato alla tradizione cristiana del nostro Paese. E noi dobbiamo pagare perché a ignoranti presuntuosi del genere sia offerto in pasto un pubblico di milioni di persone?

(Fonte: Robi Ronza, La bussola quotidiana, 17 marzo 2012)


Nessun commento: