venerdì 16 marzo 2012

Quando i grandi filosofi (si) confondono le idee

Sul settimanale «D» di «Repubblica» (25 febbraio 2012) il filosofo Umberto Galimberti [nella foto] ha risposto a una lettera che, dal tono, pare essere quella di un padre disperato perché separato, il quale conclude che, quando hai voluto e fatto un figlio insieme a un’altra persona, «non puoi più ritenere la tua libertà al di sopra di tutto». Sante parole che il filosofo conferma e sottoscrive:
«”Responsabilità” significa “rispondere” degli effetti delle nostre azioni». Ben detto. Peccato che le pezze d’appoggio per tale conclusione siano un tantino discutibili. Il filosofo esordisce con questa affermazione: «La nozione di “vita privata” nasce come conseguenza del primato dell’individuo nei confronti della società. Un primato fondato e diffuso in occidente dal cristianesimo». A dire la verità, il cristianesimo introduce il concetto di «persona», valido per tutti gli esseri umani. L’individualismo, come tutti gli –ismi, è un’eresia laica moderna, che il cristianesimo stesso stigmatizza esaltando al contempo il concetto di «solidarietà». L’individualismo non nasce dal cristianesimo ma, come diceva Chesterton, è una della tante «idee cristiane impazzite» che hanno funestato la storia.
Ma il filosofo insiste: «Prima dell’avvento del cristianesimo, come riferiscono gli antropologi, in tutte le popolazioni vigeva il principio del primato della comunità rispetto ai singoli individui, primato che Platone e Aristotele teorizzano sulla base del fatto che, essendo l’uomo un animale sociale (zõon politikón), non si è uomini se non in quanto membri di una comunità (pólis). Ciò comporta una perfetta coincidenza tra etica e politica che verrà spezzata dal cristianesimo». Dimenticando di dire che per gli antichi (tra cui Platone e Aristotele) gli schiavi erano esclusi dai benefici della «comunità» poiché semi-bestie. E anche le donne non se la passavano granché bene, quanto a diritti. Tutte le popolazioni pagane praticavano i sacrifici umani, altra piccola dimenticanza del filosofo. Il «primato della comunità», poi, faceva sì che per le colpe di uno pagassero tutti: la sua famiglia, i suoi amici, il suo villaggio, bambini compresi. Il «primato della comunità» è il concetto che ancora oggi impedisce al cristianesimo di penetrare in Asia (e in tante zone d’Africa) per rendere la vita dei suoi abitanti meno dura e infelice.
In molte regioni dell’India, per esempio, il cristianesimo insegna che ogni essere umano ha dei diritti, cosa che vale anche per i fuoricasta, ed è per questo insopportabile ai nazionalisti indù. Poi, che sia stato il cristianesimo a spezzare la felice coincidenza tra etica e politica non sta né in cielo né in terra ma solo nella filosofia di Galimberti, il quale forse nulla ha appreso a scuola della corruzione politica dei pur civilissimi antichi romani. Nemmeno di quella praticata, oggi, da gente che cristiana non è più. O non lo è mai stata, come la nomenklatura cinese della Repubblica popolare.
Ma il nostro filosofo ritorna ad avere ragione quando insegna l’acqua calda: «In realtà non c’è alcuna azione individuale che non abbia effetti sociali». Peccato che l’esempio scelto non ci azzecchi per niente: «Quando un medico, ad esempio, appellandosi alla propria coscienza individuale, fa obiezione di coscienza, si fa carico anche delle conseguenze della sua scelta nei confronti del paziente a cui nega un atto medico?». Atto medico? L’obiezione di coscienza vale per l’aborto o per la pillola abortiva. Varrà anche per l’eutanasia. Che non sono certo «atti medici». Un medico obiettore, poi, non si appella alla sua «coscienza individuale» bensì al Giuramento di Ippocrate, che ha prestato prima di intraprendere la professione. Umberto Galimberti è considerato uno dei maggiori filosofi italiani contemporanei. Chissà come sono i minori.


(Fonte: Rino Cammilleri, La bussola quotidiana, 12 marzo 2012)
 

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