sabato 3 marzo 2012

Il pontificio consiglio della cultura e un catalogo del vuoto artistico

È stato presentato sabato 18 febbraio a Roma il catalogo della famigerata mostra per il sessantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI, organizzata mesi or sono dal Cardinal Ravasi. Non stupirà apprendere che il volume è stato presentato dallo scrittore Vincenzo Cerami, dall’architetto Santiago Calatrava e dal povero artista (nel senso di massimo esponente dell’arte povera) Jannis Kounellis.
La cultura per Ravasi evoca immancabilmente l’incontro con ateismo, laicismo e il fascino di ciò che è in una parola cool. Potremmo dunque a ragione definirla cooltura. Ma sorvoliamo per un attimo sul cardinale errabondo nel suo cortile dei gentili e veniamo al catalogo curato da Micol Forti e monsignor Pasquale Iacobone. Partiamo dal testo introduttivo firmato dal Pontificio Consiglio della Cooltura ossia dalla persona di monsignor Iacobone: “più che un semplice catalogo dell’Esposizione (…), questo volume vuole innanzitutto raccontare e documentare l’evento che ha visto il Santo Padre e gli artisti invitati protagonisti di un incontro davvero singolare ed eccezionale”.
“L’evento” dunque surclassa già in premessa i contenuti e così l’introduzione somiglia a quegli agili riassuntini che i maestri ci facevano scrivere alle elementari di ritorno da una gita: “siamo partiti alle sette, il pullman era festante… la visita al museo si è svolta verso le undici… all’una pranzo al sacco…”. Così Iacobone: “Il Santo Padre ha solennemente inaugurato l’esposizione nella mattinata del 4 luglio. (…) Il Cardinale Gianfranco Ravasi ha quindi indirizzato il suo saluto al Santo Padre (…) Il Pontefice ha rivolto ai presenti un breve ma intenso discorso (…).”
Insomma due paginette che preludono al vuoto di questa ennesima operazione ravasiana. Ma il pezzo forte del catalogo è lo sconclusionato contributo di Micol Forti, curatrice della collezione d’arte contemporanea dei Musei Vaticani, dal titolo “Premessa. Le opere, gli artisti.” Leggiamo quest’altro specimen di vacuità ammantata di complessità: “La creazione artistica, nelle sue più diverse forme, nell’eterogeneità delle tecniche e delle declinazioni stilistiche, si manifesta all’interno di un vasto terreno comune, quello della comunicazione, della condivisione e dello scambio; e il suo valore espressivo si consolida e, a un tempo, si trasforma, grazie al suo essere parte integrante di un determinato periodo storico.
Ogni forma linguistica e poetica esige una fonte creatrice e un alveo capace di accogliere il suo fluire, la sua capacità di contaminare ed essere contaminata, di interpretare ed essere interpretata, senza soluzione di continuità, dal tempo, dalla cultura e dalla storia.”
Ci avete capito qualcosa? Proviamo a fare una breve analisi di questo contorto pensiero. L’opera d’arte nonostante la varietà di forme, tecniche e stili avrebbe un elemento di comunione che si identifica con la comunicazione e lo scambio. La comunicazione, l’interazione assurge a trait d’union fra le variegate espressioni artistiche ben più del loro contenuto. L’espressione dunque diventa un “valore” e tale “valore” sussiste nella sua ambiguità semantica e storica.
Vi è un linguaggio artistico che è contemporaneamente afasico, o meglio illogico, non sostenuto da una correlazione fra espressione e contenuto, fra parola e realtà. Ogni creazione si perde nella mutevolezza e nell’ambiguità, nel tutto che è anche niente, nel bianco che è anche nero, nel tempo che è anche eterno, nella complessità verbale che è anche mera banalità o meglio vuoto noetico riempito di parole e costrutti senza capo né coda.
La Forti prosegue nel suo strologare con inusitata lucidità: “Si è voluta testare la possibilità di comporre un tessuto fatto di convergenze, in cui l’inevitabile auspicata policromia, dovuta a trame e orditi di diversa natura e provenienza, rispettasse le singole espressioni artistiche e al tempo stesso esaltasse la straordinaria ricchezza celata o sprigionata dalla convivenza di molteplicità e diversità.”
E ancora: “Compositori, poeti e letterati si sono volentieri offerti presentando le loro opere come ‘segni’, non suonati, non letti eppure testimoni di un mondo di idee e di espressioni, in costante tangenza con forme comunicative differenti; e la loro presentazione è stata pensata come un sistematico contrappunto ai linguaggi visivi. Insieme all’architettura (…) esemplificano una visione complessa che, rinunciando da un lato a ogni espressione ideale e specialistica, propone una possibilità di integrazione tra diversi piani formali e percettivi”.
Non possiamo non essere grati alla dottoressa Forti per questa sua breve premessa. Essa illumina, infatti, il vuoto che pervade quel dicastero vaticano della cooltura, dove il medium è più interessante della res, dove l’apparenza in sé priva di identità e valore diviene centro di ogni discussione e l’oggettività scolora nel relativismo dialettico. O forse no, dato che il realismo e la stessa realtà risultano al di fuori dell’orizzonte di tali sedicenti esperti d’arte e più precisamente d’arte sacra e religiosa.
La fede, la ricerca di Dio, l’esegesi e l’evangelizzazione restano solo comodi slogan per aggregare discepoli di vanità, per assecondare le esigenze di una cooltura fatta di parole insensate, mirabile erudizione e ciononostante di vuoto ideale e arsura spirituale.
Leggevo a tal riguardo qualche giorno fa il post del blog di Ravasi (ospitato sul sito del Sole24Ore, quotidiano della Confindustria dal supplemento culturale – un tempo – molto cool) nel quale il Cardinale annunciava l’ “evento” di presentazione del catalogo. Non poteva non colpirmi la solita chiusura a base di citazione colta e improbabile, ma definitivamente cool (la poetessa ebrea tedesca chiunque essa sia non può non essere cool), la seguente: “Mi piace concludere ricordando la bella citazione della poetessa ebrea tedesca Nelly Sachs: “Se i profeti irrompessero per le porte della notte, incidendo ferite di parole nei campi dell’abitudine… Se i profeti irrompessero per le porte della notte, cercando un orecchio come patria, orecchio degli uomini, ostruito di ortiche, sapresti ascoltare?”.”
Ecco: sarebbe auspicabile riflettere sulle citazioni oltre che bearsi nel diffonderle. Specie se il vuoto coincide col proprio campo d’abitudine e le orecchie sono ostruite di ortiche, sì, quelle che crescono nel cortile dei gentili…
 
(Fonte: Francesco Colafemmina, Fides et Forma, 21 febbraio 2012)


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