Si
sono presi porte in faccia dappertutto. Negli ultimi giorni della loro
esistenza hanno girato a vuoto fra associazioni di categoria, sportelli
comunali e sindacali, Caritas, sindaci, banche e finanziarie. Per chiedere un
aiuto, la riscossione di un credito, un margine di tempo, un prestito, una
parola di conforto. Non hanno cavato un ragno dal buco. E hanno finito la loro
vita al chiuso di un capannone o di un ufficio, con una pistola alla tempia o
una corda stretta al collo.
Giovanni
Schiavon, Giancarlo Perin, Paolo Tonin, Antonio Tamiozzo, Ivano Polita, Paolo
Trivellin, Paolo Mascagni, Walter Ongaro… Ogni nome racconta una storia, tutti
insieme segnano un’epopea, quella della piccola impresa e del Nord-Est, del dio
denaro, del capannone e degli «schei,» del «produco ergo sum» come collante
sociale predominante. Se ne contano una ventina solo quest’anno, qualcuno dice
di più, forse sono meno, chissà. Difficile stendere una tabella precisa con
nomi e cognomi di imprenditori e lavoratori che si sono tolti la vita a causa
della crisi economica. Perché, mai come in questi casi, di certo c’è solo la
morte, mentre se ci si addentra nel labirinto delle cause si finisce per non
trovare più l’uscita. Le uniche certezze, fra simili notizie giornaliere
registrate ovunque in Italia, arrivano dai dati forniti dalla Cgia,
l’associazione degli artigiani di Mestre, utili per capire la portata del
fenomeno: 187 suicidi e 245 tentativi nel 2010, più 20 per cento rispetto a due
anni prima. L’inasprirsi della crisi economica può solo rendere più drammatico
il conto per 2011 e 2012.L’altro punto fermo è la Chiesa. Una Chiesa che forse, per dirla con le parole di Francesco Moraglia, il nuovo patriarca di Venezia, «non sempre ha capito il dramma di chi è senza lavoro o di chi pensava fosse un soggetto robusto del mercato». Una Chiesa che di fronte a queste tragedie umane mostra la sua faccia migliore: quella dei pastori che vivono sul territorio e che sono vicini al gregge. Religiosi che sono pronti ad aprire le braccia e il portone della chiesa anche a chi ha commesso un atto come il suicidio, condannato dal cattolicesimo. Loro, i parroci, lasciano le questioni dottrinarie e di principio alle dispute dei sacri palazzi e celebrano i funerali di quelli che considerano caduti sul lavoro. L’escamotage è diventato prassi consolidata: la persona che si toglie la vita non lo fa per scelta ma per una situazione momentanea in cui si è venuta a trovare e che ha prodotto un obnubilamento delle facoltà. Nessuna volontà di morte deliberata e reiterata, come nel caso di Piergiorgio Welby, a cui furono negati i funerali.
Massimo Facchin ha 56 anni, metà dei quali passati da sacerdote. A dicembre dell’anno scorso ha accolto nella sua parrocchia padovana oltre 300 persone riunite attorno alla salma di Giovanni Schiavon, imprenditore edile che non riusciva a riscuotere crediti per oltre 200 mila euro. Nell’omelia don Massimo ha parlato di un uomo schiacciato da un sistema bloccato in cui le regole sono evaporate sotto i colpi della crisi: «Ci vuole più umanità, bisogna imparare ad avere più attenzione verso le persone, più rispetto delle buone regole della vita sociale. Noi siamo per aprire le porte della chiesa e della preghiera, lui ha trovato solo porte chiuse».
Oggi, a distanza di oltre quattro mesi, don Massimo ricorda ancora quei momenti, la commozione generale, il nodo in gola. E dice di non avere avuto la benché minima esitazione nel celebrare il funerale, né di avere mai pensato a una sorta di beneplacito delle alte sfere. «Siamo cristiani che pregano per un nostro fratello in difficoltà. Ha sbagliato, non è questo il modo di risolvere i problemi. Da fuori possiamo anche giudicare, ma non riusciremo mai a comprendere la reale portata del dramma che ha scombussolato quella mente».
Per don Massimo, quello di Schiavon è un «suicidio per disperazione», mentre nel caso di Welby si era di fronte a un «dispregio della vita». Da un parte, «un uomo soffocato che vede nel suicidio l’unica boccata d’aria». Dall’altra, una «volontà lucida» anche se «provata da una lunga sofferenza».
Paolo Trivellin aveva 46 anni, una piccola azienda edile a Noventa Vicentina. Aveva un contenzioso aperto per dei lavori all’interno della caserma Ederle di Vicenza. È andato lì a protestare con i suoi operai, ha chiesto invano che almeno loro venissero liquidati. Poi ha scritto quattro lettere e si è impiccato. Per l’ultimo saluto in chiesa è stato accolto da Angelo Corradin, prete dal 1982. Che durante l’omelia ha rivendicato il «diritto al lavoro e una vita dignitosa» e ha rivolto un invito alle istituzioni perché si adoperino per «non portare le persone alla disperazione ». Anche per lui nessun dubbio sul funerale: «Negli ultimi 30 anni è cambiato l’approccio della Chiesa, per fortuna il prete ha smesso di essere il giudice che decide se sei degno di una preghiera pubblica».
Gesto scaturito da un momentaneo blackout delle facoltà mentali: il concetto si ripete nelle parole di don Giovanni Baldo, di Borgoricco, provincia di Padova, a cui è toccato l’ultimo saluto alla salma di Giancarlo Perin, imprenditore di 52 anni molto conosciuto nella zona. E di don Francesco Pavin, missionario in servizio ad Altivole, Treviso, che è stato tra i primi ad accorrere nel capannone dove Paolo Tonin si è tolto la vita dopo settimane di agonia in cui si era incolpato pure per la siccità che non dava slancio ai suoi asparagi.
Ma in Veneto c’è una Chiesa che vuole essere in prima linea anche prima, non solo dopo. Davide Schiavon, sacerdote di 43 anni, da quattro direttore della Caritas di Treviso, ha creato un «centro di ascolto per imprenditori di microimprese in difficoltà». Lo sportello ha aperto lo scorso febbraio, a oggi sono 15 le persone che hanno chiesto aiuto. Depressione, prostrazione, angoscia, insonnia, vita privata che si sgretola: sono questi i tratti comuni. «Aiutiamo a individuare le possibilità di mercato, gli sbocchi, le prospettive, le decisioni più opportune da prendere». Perché quando la crisi morde, è meglio guardarla negli occhi.
(Fonte:
Carmelo Abbate, Panorama, 7 Maggio 2012)
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