giovedì 21 gennaio 2010

Il Papa in sinagoga

Credo sia utile riprendere sinteticamente i punti principali del discorso di Benedetto XVI nella visita alla Sinagoga di Roma. La lettura della stampa continua a non aiutare perché troppi articoli di presentazione dell’evento sono intossicati dal bisogno di trovare elementi polemici o comunque stravaganti, diversi da quelli che usciranno sugli altri quotidiani. È la logica del “dover stupire” a tutti i costi, per colpire il lettore in edicola, attraverso la lettura del titolo, e così indurlo a comprare la copia di quel quotidiano e non di un altro.
Sarà forse una logica di mercato, certamente non è un buon modo per capire le parole del Papa. Ascoltiamole.
1. Intanto il Pontefice si è rivolto ai suoi fedeli, per ricordare il “punto fermo” della dottrina del Concilio Vaticano II nel rapporto con gli ebrei: «un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia». Un cammino non facile, che ha comportato uno sguardo doloroso da parte della Chiesa su colpe commesse nel passato da «suoi figli e sue figlie», che hanno favorito «in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo».
2. Dopo aver guardato ad intra, il Papa getta lo sguardo sul XX secolo, dove si incontra la tragedia della Shoah. Quest’ultimo dramma è la conseguenza della diffusione di “ideologie terribili” che hanno sostituito il Creatore e la sua legge con altri idoli, l’uomo, la razza o lo Stato, così che il tentato genocidio degli ebrei non fu conseguenza della diffusione di una cultura cattolica ostile al giudaismo, ma il risultato della diffusione di ideologie anticristiane che con l’annientamento del popolo d’Israele «intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno», così come disse Benedetto XVI ad Auschwitz il 28 maggio 2006.
3. Anche gli ebrei romani furono oggetto della violenza nazionalsocialista durante la seconda guerra mondiale. Ma se «molti rimasero indifferenti», ricorda il Papa che «molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita». E anche «la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta», ha ribadito il Pontefice, senza nominare il venerabile Pio XII ma ricordandone l’azione forte e intelligente a favore degli ebrei, come del resto questi ultimi, fino all’inizio degli anni 1960, hanno sempre ricordato. La questione del silenzio di Pio XII, che continua a disturbare un dialogo che altrimenti potrebbe essere più fecondo, viene risolta dal Papa nel modo più elementare: il Papa Pacelli si comportò così perché in quel modo ritenne di essere più efficace nell’opera di salvezza degli uomini, e degli ebrei, minacciati dal nazionalsocialismo. Se i rappresentanti della comunità ebraica, ma questa è una mia stretta opinione personale, si trattenessero dall’intervenire con giudizi temerari sulla vita interna della Chiesa cattolica, come appunto l’intenzione di Pio XII o lo sviluppo della dottrina cattolica sul rapporto con le altre religioni, credo che il rapporto di amicizia e di collaborazione ne ricaverebbe soltanto benefici. Se accadesse il contrario, è facile immaginare quali potrebbero essere le reazioni.
4. Quindi Benedetto XVI arriva al punto che mi appare centrale in questa storica visita alla Sinagoga di Roma. Ossia l’appello a un dialogo fondato sul Decalogo o su quelli che il Papa altrove chiama i principi non negoziabili. Dopo aver ricordato le radici comuni, la storia e il ricco patrimonio spirituale «che condividiamo» con gli ebrei, scrutando il mistero del «profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola» (come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 839), il Papa invita a guardare alle «Dieci Parole». Esse possono diventare il «comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità». Dai Dieci Comandamenti, derivano il «rispetto, la protezione della vita» perché ogni persona è creata a immagine e somiglianza di Dio, la «santità della famiglia», per cui il «sì personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e della donna» fondano quella famiglia che «continua a essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane» e l’impegno a «esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i bisognosi».
Queste le parole del Papa. Ne esce un discorso semplice e chiaro, che ha l’obiettivo di favorire ulteriormente il dialogo e l’amicizia con il mondo ebraico nella chiarezza degli obiettivi, «consapevoli delle differenze che vi sono tra noi». Una grande alleanza per difendere la vita, la santità della famiglia, il dovere della solidarietà. Qualcosa di simile era accaduto a Regensburg nel settembre 2006 con i musulmani: anche lì si auspicava il dialogo sulla base della ragione, comune a tutti gli uomini di qualunque fede. Venne malinteso dalla stampa mondiale e ne nacque quasi un incidente diplomatico. Leggiamo bene le parole del Papa, se possiamo leggiamole integralmente, e non lasciamoci sopraffare da chi cerca soltanto occasioni di polemiche.

(Fonte: Marco Invernizzi, Il Timone, 19 gennaio 2010)

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