Mentre i titoli su Haiti scompaiono dalle prime pagine di molti quotidiani, uno scarno, inosservato lancio d’agenzia della americana Catholic News Agency aggiunge un particolare sul ritrovamento, sotto alla cattedrale di Port-au-Prince il 20 gennaio, del corpo del vicario generale Charles Benoit. Quando è stato dissepolto dalle macerie il vicario, afferma la Cna, stringeva fra le mani la pisside con le ostie consacrate. Dunque Benoit, colto in chiesa dal terremoto, prima di cercare di fuggire ha avuto il pensiero di portare in salvo ciò che gli era più caro: il corpo di Cristo custodito nel tabernacolo. Non ce l’ha fatta. Le volte gli sono crollate addosso in un fragore di tuono, in una apocalisse di urla e di pietre.
Come l’anziana donna trovata viva due giorni fa sotto la cattedrale, il corpo del vicario doveva essere così coperto di polvere da sembrare una statua. Una statua con quel vaso avvinto al petto, nell’irrigidimento della morte; in una stretta più forte della morte.
Che Chiesa viva dev’essere quella un cui pastore, faccia a faccia col proprio ultimo istante, rimane fisso col cuore al corpo di Cristo, fedele fino all’ultimo respiro. La Chiesa viva di Haiti ha pagato il suo tributo alla strage: ancora trenta seminaristi mancano all’appello. Il nunzio apostolico, Bernardito Auza, percorre le vie della città incenerita cercando di portare conforto, e a chi gli chiede di cosa c’è bisogno risponde umilmente: «Abbiamo un infinito bisogno di tutto».
Di tutto, anche se l’aeroporto della città è intasato di generi di prima emergenza, e accanto al Catholic Relief Services decine di agenzie di ogni parte del mondo cercano di curare e assistere la popolazione. C’è «un infinito bisogno di tutto», perché l’attenzione dei media si affievolirà presto, e assieme l’onda di emozione che questa strage ha sollevato. Spenti i riflettori, partiti i giornalisti, Haiti resterà con le sue moltitudini di senzatetto, con le sue migliaia di mutilati e orfani; sola con il suo lutto immane sepolto nel fragore delle ruspe nelle fosse comuni. Chi ricostruirà le case di Port-au-Prince, chi rieducherà chi ha perso una gamba a camminare, chi creerà lavoro per questa folla immensa che mangia solo grazie alla carità internazionale? Già i titoli scivolano dalle prime pagine, come è inevitabile che sia; ma la tragedia di Haiti, piombata su una antica miseria, su endemici mali, è una tragedia di lungo corso.
Ci vorrà molto tempo. Ci vorrà una pazienza infinita, una miriade di lunghe oscure dedizioni per questo popolo, che forse ora è il più povero del mondo. E così disgraziato che a qualcuno cinicamente può venire la tentazione di dire: lasciamo perdere laggiù, arrendiamoci. Passata l’emozione svegliata dagli occhi di quei bambini, il rischio è che il mondo si abitui a sapere di avere, nei Caraibi, una annichilita isola di disperati.
Ci vorrà molto tempo, e forze, e uomini, e denaro. La Chiesa italiana domani chiederà ai fedeli, a messa, un aiuto per questo: per una presenza che durerà negli anni, tenace. Per il tempo che occorre a un bambino mutilato a riprendere, con le stampelle, a camminare; ai padri, per tornare a dare da mangiare ai figli; a tanti, di ricominciare a sperare.
Perché la speranza, è cosa a cui bisogna essere fedeli. Cocciutamente, anche quando tutto sembra volerla negare. Fedeli come quel vicario che mentre la navata della cattedrale vacillava nel mugghio atroce del terremoto, è tornato indietro e ha afferrato la pisside con le ostie. Il corpo di Cristo. La Speranza, in persona. Dicendoci in quel gesto qualcosa di Haiti, del suo popolo, della sua fede, che nessuna tv ci ha raccontato. Quasi in una profezia per questa terra, quel corpo di Cristo sepolto insieme a quelli degli uomini – ma strappato alle macerie, e riportato alla luce.
(Fonte: Marina Corradi, Avvenire 23 gennaio 2010)
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