Sarà Bari, la città capofila della Ru486. Nella Puglia del record di aborti (318 su 1.000 nati, contro i 241 della media nazionale), là dove la corsa all’interruzione di gravidanza vede come protagoniste soprattutto le minorenni e dove appena l’11% delle donne si rivolge a un consultorio prima della decisione di rinunciare al proprio bambino, già la prossima settimana arriveranno le prime confezioni del farmaco. Ci sarebbe già una lista di donne pronte a farne uso: dieci, sembra, che hanno già inoltrato richiesta alla prima Clinica Ostetrica del Policlinico. A dire che i timori più volte espressi circa la possibilità che il farmaco favorisse la pratica dell’aborto – se non addirittura la incrementasse – non erano infondati.
Chi non rimane stupito, della notizia, sono soprattutto i ginecologi della città, che raccontano di un clima di confusione abbastanza diffuso, in cui da una parte spiccano alcuni medici desiderosi di "protagonismo" (pronti a promettere il prima possibile la pillola per dar lustro e visibilità alle proprie strutture ospedaliere), dall’altra i molti preoccupati per le modalità dell’impiego del farmaco: «Si teme che per evitare il ricovero le donne possano utilizzare la "scappatoia" delle dimissioni volontarie – spiega il direttore del Dipartimento materno-infantile dell’ospedale di Venere di Bari, Filippo Boscia –. In quel caso chi risponderà, nel caso di complicazioni post-abortive, saranno gli stessi medici che hanno prescritto il farmaco».
Già, le "complicazioni". Che almeno una decina di donne pugliesi conoscono già bene, visto che in regione la pillola abortiva si è sperimentata a partire dal 2006 con un protocollo che prevedeva sì l’assunzione del primo farmaco in ospedale (il mifepristone), e del secondo a tre giorni di distanza (le prostaglandine, per favorire l’espulsione del feto), ma che poi permetteva alle pazienti di tornarsene a casa. E lì, effettivamente, di assistere al proprio aborto. «Ho seguito personalmente il caso di una 24enne di Bari che aveva preso parte alla sperimentazione della Ru486 – continua Boscia –. Si era rivolta a me per le gravi emorragie che, anche a mesi di distanza dall’aborto, non cessavano. Un decorso traumatico che l’aveva sconvolta, e non solo fisicamente. Aveva espulso il feto nel bagno di casa sua, e mi raccontò di essere svenuta per quella visione».
Un caso emblematico anche per la scarsa informazione delle donne circa gli effetti collaterali della Ru486, tutt’altro che un aborto "facile", o "indolore": «Questa promessa può essere addirittura devastante in un regione come la nostra – dice Boscia –, dove così tante minorenni ricorrono all’interruzione di gravidanza e dove, oltre ai consultori, manca drammaticamente la presenza di servizi di accompagnamento psicologico nelle cliniche». Questi servizi, secondo quanto prescritto dalla stessa legge 194, dovrebbero aiutare le donne nella loro difficile scelta, scongiurarne l’esito, comprenderne le cause e prevenire l’aborto: «Ma la Regione, invece che muoversi su questo fronte – conclude Boscia – sceglie subito la Ru486».
(Fonte: Viviana Daloiso, Avvenire, 4 aprile 2010)
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