venerdì 16 aprile 2010

Non ammette forzature il linguaggio del buon diritto

Grazie alla Corte Costituzionale, il tentativo di introdurre nel nostro ordinamento il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, sfruttando in modo capzioso il dettato di alcuni articoli della Costituzione, è fallito. Non è vero che le coppie omosessuali vadano fatte rientrare nel novero delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2; non è vero che si incrina il principio d’eguaglianza, proclamato nell’art.3, negando le nozze ai gay; non è vero che si possa leggere il testo dell’art. 29, come se il riferimento alla famiglia avesse una valenza plurale (cioè come se esistessero diversi modelli di famiglia, tutti parimenti meritevoli di attenzione da parte del legislatore).
Hanno assolutamente torto quindi, in buona sostanza, quegli omosessuali che affermano di essere discriminati perché la legge non concede loro di sposare il partner; la discriminazione non esiste, perché l’esperienza della coppia omosessuale può anche avere un forte rilievo psicologico, affettivo e sociale, ma non per questo possiede un rilievo giuridico, perché non crea famiglia, non attiva cioè quei vincoli interpersonali e intergenerazionali che giustificano quella regolamentazione giuridica del rapporto eterosessuale che chiamiamo "matrimonio".
Vengono così confutate le opinioni di coloro che percepiscono un conflitto tra la normativa italiana in tema di matrimonio e famiglia e le indicazioni normative europee, che siamo vincolati a rispettare; vengono così dichiarate inconsistenti le opinioni di tutti quei giuristi (né pochi né privi di prestigio) che da anni cercano di convincere l’opinione pubblica che bisogna dare una lettura "progressista" del testo costituzionale, identificando il progressismo col libertarismo; vengono respinti i tentativi di abusare del linguaggio e del lessico dei diritti, per far ottenere riconoscimento giuridico a ciò che non lo merita.
Sappiamo che la battaglia sul matrimonio tra gay continuerà; ma adesso, dopo la pronuncia della Corte, possiamo sperare che venga condotta con mezzi intellettualmente più onesti di quelli fino ad ora utilizzati.
Tutto bene, dunque? Forse sì, forse no: da alcune indicazioni ufficiose (dato che nel momento in cui scrivo non si ha ancora il testo del dispositivo della sentenza) sembra che i giudici della Consulta abbiano sostenuto che qualsiasi decisione in tema di matrimonio omosessuale spetti esclusivamente alla volontà esplicita e positiva del legislatore (e che quindi non possa essere ottenuta in via obliqua, come hanno cercato di fare i ricorrenti, peraltro sonoramente sconfitti).
Se fosse davvero così, se la Corte avesse riconosciuto che è nella discrezionalità del potere politico modellare il matrimonio non nelle sue configurazioni storicamente contingenti, ma nella sua struttura, avrebbe commesso un errore. Il matrimonio non è una invenzione dello Stato e va da questo rispettato nella sua identità di vincolo eterosessuale e generazionale. Guai se ci lasciamo indurre a pensare che il legislatore possa manipolare istituzioni antropologiche fondamentali, fino al punto da renderle irriconoscibili. Si dirà: ma non è proprio questo che è avvenuto nella Spagna di Zapatero, col riconoscimento del matrimonio gay? Sì, è avvenuto proprio questo; è avvenuto che la legge abbia umiliato il diritto e la giustizia ed abbia istituzionalizzato il torto. L’intervento della Consulta ha impedito che un analogo torto venisse istituzionalizzato anche in Italia.
Diciamole grazie. E mentre le diciamo grazie, ricordiamole che la sua altissima funzione consiste nell’essere non solo la custode della Costituzione, ma ancor più e ancor prima la custode del buon diritto.

(Fonte: Francesco D'Agostino, Avvenire, 15 aprile 2010)

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