Tra i molti problemi creati in vari Paesi dai casi di pedofilia tra il clero, ve ne è uno in particolare che va dritto al cuore del messaggio cristiano: l’esigenza di giustizia e di perdono, due fatti tra loro correlati.
Ogni ingiustizia è innanzitutto un atto di disprezzo della persona, che può essere riparato solo in parte. Questo si può vedere chiaramente nel caso di un omicidio. In America, i familiari delle vittime dichiarano spesso che niente, neppure la pena di morte, può riparare all’ingiustizia commessa. Solo il pentimento e qualcosa come il perdono possono cominciare a sanare la ferita inferta ai singoli e alla comunità.
Persino per offese meno gravi, come il furto, l’eventuale risarcimento monetario predisposto dall’autorità giudiziaria non è in grado di compensare veramente il senso di violazione che rimane nelle vittime. Ogni tentativo di rimediare un’ingiustizia trascende le nostre abituali categorie legali e va a toccare qualcosa oltre le nostre capacità puramente umane.
Questa già difficile questione diventa ancor più complicata nei casi di pedofilia nella Chiesa, perché quelli che hanno il compito di predicare il perdono, preti e vescovi, sono proprio quelli (anche se non sono le stesse persone) che devono anche riconoscere e affrontare le ingiustizie commesse dentro l’istituzione.
In un penetrante intervento, Julián Carrón dei Legionari di Cristo, ha giustamente sottolineato la rabbia che molti di noi provano, e come nulla di quanto può essere fatto adesso possa sembrare una risposta adeguata al male fatto, tranne l’abbraccio della Croce e del perdono. Il problema per la Chiesa è che predicare queste necessarie verità prima di un lungo periodo di scuse e penitenza può apparire come un “perdono a buon mercato”, un oltrepassare rapidamente le colpe della Chiesa come istituzione, per mettere sulle spalle delle vittime il pesante fardello di un quasi impossibile perdono.
Occorre però evitare che le richieste, inevitabilmente dure, conseguenti al male commesso impediscano di dire la verità. Come gli psicologi ben sanno, non si risolve il problema dicendo a chi è stato offeso così gravemente che le sue ferite non possono essere guarite o che devono continuare a provare rabbia. Non vi sono regole semplici per trattare ogni singolo caso e sono necessari un coinvolgimento personale e una sincera condivisione. Ciò che viene detto e fatto pubblicamente può aiutare o danneggiare questo processo. La Chiesa ha su di sé una responsabilità particolare nel chiedere pubblicamente scusa e invitare a un profondo risanamento.
Nel contesto internazionale in cui si trova ora la Chiesa, questo significa probabilmente un lungo periodo di penitenza, forse molto più lungo dell’anno prescritto da Benedetto XVI all’Irlanda nella sua lettera a questa nazione. Nello stesso documento, il Papa afferma che questa crisi ha oscurato il Vangelo in Irlanda più di quanto abbiano fatto “secoli di persecuzione”. Si pone perciò il problema di una chiara e profonda riforma istituzionale, e non solo in Irlanda. In America, nel 2002, i nostri vescovi hanno messo in atto una severa politica di “tolleranza zero”, che ha ridotto a pochi casi le denunce di abusi.
Da notare, però, che queste stesse misure hanno creato anche casi di ingiustizie a danno di singoli ecclesiastici e della Chiesa in generale; pertanto, i vescovi degli altri Paesi devono essere molto attenti alla correttezza verso gli accusati e al rischio di sentimenti di vendetta contro la Chiesa.
Per esempio, la regolamentazione delle cause per abusi da parte di insegnanti, impiegati pubblici e categorie simili, in molti stati degli Usa prevede la prescrizione dopo due anni, perché si riconosce che sarebbe difficile garantire un corretto dibattito dopo un periodo più lungo di tempo. Tuttavia, diversi stati hanno introdotto recentemente una clausola in deroga che prolunga la prescrizione a trent’anni per gli abusi da parte di ecclesiastici.
Le conseguenze sono che, oltre a una palese disparità nell’applicazione della legge, queste delibere sono in pratica un invito a intentare cause giudiziarie impossibili da risolvere e dirette solo a ottenere risarcimenti finanziarie dalle diocesi coinvolte. Dato il clima attuale, è difficile impugnare queste delibere, ma non si può permettere che una serie di ingiustizie dia luogo al sorgere di altre ingiustizie.
La Chiesa sembra quindi destinata ad anni di penitenza e di critiche. Eppure, è forse una buona cosa che, subito dopo Pasqua, ci siano ricordate le vie tormentose del peccato. Possiamo essere sicuri che gli Apostoli, pur pieni di gioia per la Resurrezione, sentissero ancora il dolore pungente del loro tradimento di Gesù, e del traditore Giuda in mezzo a loro, e la crescente ostilità del potere religioso e laico. In questo senso, forse, stiamo sperimentando quest’anno una dimensione autentica della Pasqua che abbiamo spesso trascurato nel recente passato.
(Fonte: Robert Royal, Il Sussidiario.net, 9 aprile 2010)
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