Nuovo stop della Corte costituzionale alla campagna pressante del movimento gay di ottenere il riconoscimento del matrimonio omosessuale per via giudiziaria. La Consulta con una decisione presa il 16 dicembre e depositata ieri con una ordinanza (la 4 del 2011), ribadisce infatti in modo molto netto quanto già stabilito in una sentenza di aprile e in una ordinanza di luglio del 2010: dichiara, cioè, che non possono essere considerate incostituzionali le norme del codice civile che non consentono il matrimonio tra le persone dello stesso sesso.
Una ennesima prova, dunque, che la insistenza programmatica dell’attivismo omosessuale non può modificare il senso delle leggi, quando si rispetta il significato autentico delle norme. Da notare infatti che la decisione del tribunale di Ferrara di interpellare la Consulta, nel dicembre del 2009, in merito alle richiesta di sposarsi di una coppia di lesbiche, fu commentata trionfalisticamente da un sito degli omosessuali organizzati: «La campagna di affermazione civile continua». Più sotto l’appello a tutte le lesbiche e gay a presentare richiesta di pubblicazioni matrimoniali, per poi poter impugnare il rifiuto. Ma con la ordinanza di ieri la Corte ha ritenuto, sotto il profilo dell’articolo 2 della Costituzione che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo nella sfera individuale e sociale, «inammissibile» la questione di legittimità degli articoli del codice civile che sanciscono che il matrimonio è solo tra un uomo ed una donna. La richiesta promossa dalla coppia di lesbiche è irricevibile, perché, spiega l’ordinanza, «diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata». «Infondata» poi è stato considerato il dubbio di costituzionalità a riguardo dell’articolo 3 della nostra carta fondamentale, sulla uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, richiamato nell’impugnazione delle norme del codice civile, insieme al 29 che riconosce la famiglia come società naturale.
In altri termini per il "giudice delle leggi" è indiscutibile che per la Costituzione l’unico matrimonio possibile è quello tra un uomo ed una donna. Nella sentenza di marzo richiamata nella ordinanza di ieri infatti si affermò che i principi costituzionali vanno interpretati tenendo conto della evoluzione della società, ma non fino al punto da «incidere nel nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati quando fu emanata». L’ordinanza di ieri spiega, poi, che «l’articolo 29 della Costituzione si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso, e questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica», anche «perché le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio». In conclusione siccome la unione tra due omosessuali non è affatto equiparabile alle nozze tra un uomo ed una donna, non vi può essere nessuna discriminazione nel fatto che il nostro ordinamento non prevede il matrimonio gay. Assai significativo, poi, il fatto che nella ordinanza pubblicata ieri, a differenza della sentenza precedente, non viene richiamata affatto la Carta dei diritti fondamentali della Unione europea. Infatti è erroneo ritenere che quel documento estenda le competenze comunitarie, restando la normativa relativa al matrimonio di unica competenza delle legislazioni nazionali.
(Fonte: Pier Luigi Fornari, Avvenire, 6 gennaio 2011)
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