domenica 16 gennaio 2011

Se l’uomo si inchina solo dinanzi a sé stesso

È stato un mio caro amico, il filosofo morale Luigi Alici, a farmi notare il principio idolatrico di cui sono intrisi due celebri slogan adottati da una grande multinazionale di telefonia cellulare. Uno dice: “Tutto il mondo intorno a te”, l’altro “Life is now”, ovvero “La vita è adesso”. Messi insieme, illustrano bene l’orizzonte morale e culturale del nostro tempo e di tanti nostri giovani: soggettivismo spinto e appiattimento sul presente. Il soggettivismo elimina l’altro e toglie valore alla relazione, vissuta, al più, in modo strumentale. L’appiattimento sul presente elimina la memoria e il progetto: tutto ciò che conta è passare da un’esperienza all’altra senza trarne alcuna lezione se non quella che ribadisce l’esigenza di accumulare altre esperienze.
Più ancora e prima ancora del potere e del denaro, gli idoli dell’uomo del ventunesimo secolo sembrano essere proprio questi. Ciò che li accomuna è un’idea particolare di libertà. Essere liberi non significa, in questa prospettiva, assumere su di sé la responsabilità della vita nel rapporto con l’altro, ma stare al centro della scena e soddisfare se stessi godendo il più possibile di questa centralità. Al posto della relazione io-tu, ecco l’egocentrismo. Al posto del principio di responsabilità, ecco il principio del piacere.
“Idolo” viene dal greco eidòlon, immagine. Il verbo eido significa vedere. L’idolo è un’immagine alla quale l’uomo attribuisce un significato divino. Non è Dio, ma un’immagine di Dio. Come tale, è costruita dall’uomo. Operazione comprensibile (abbiamo un disperato bisogno di rendere visibile l’invisibile, toccabile l’intoccabile) ma puerile. Trasformando l’immagine in divinità, Dio si allontana, non si avvicina.
La storia dell’idolatria è vecchia quanto l’uomo. Ma oggi c’è una novità: l’idolo è l’uomo stesso. Al posto di un vitello d’oro c’è uno specchio che rimanda la nostra stessa immagine. Abbiamo sacralizzato noi stessi. E’ davanti a noi stessi che ci inchiniamo in adorazione e pratichiamo sacrifici, come si vede bene nel dilagante culto del corpo e dell’efficienza fisica.
L’antica radice indoeuropea di sacrum pare possedere due significati: quello di aderire e quello di seguire. In un caso come nell’altro siamo di fronte a una relazione. Aderisco a qualcuno o a qualcosa, seguo qualcuno o qualcosa. Oggi non si può dire che non c’è più spazio per il sacro. Lo spazio è rimasto, ma è cambiato il soggetto. Dio non è più un altro e la dimensione del sacro non è la relazione. Dal momento che l’immagine divina rimandata dallo specchio è la mia, la dimensione del sacro si esaurisce in quella dell’io.
Nel cristianesimo la relazione io-tu è esaltata al massimo grado. Il Dio cristiano si mette talmente in relazione con la creatura da farsi uomo. E’ la religione del logos, della parola che si incarna. Per questo, quando l’idolo sono io stesso, il cristiano e la sua fede diventano per me pietre d’inciampo da eliminare. Per l’egocentrismo idolatrico non è tollerabile una fede fondata non solo su un rapporto ma addirittura su un incontro, e un incontro d’amore!
Una volta il professor Salvatore Mancuso, ginecologo del Policlinico Gemelli, mi ha raccontato che le cellule staminali del feto si trasferiscono nel corpo della madre e restano lì per tutta la vita della donna. Lo scambio incomincia fin dal primissimo istante della fecondazione, non finisce mai e per la madre ha un valore curativo perché le cellule del figlio funzionano da soccorritrici, andando a sistemarsi là dove sono più necessarie alla salute della donna. Non è solo la mamma a dare la vita al figlio. Anche il figlio, letteralmente, dà vita alla mamma. Per questo, dice Mancuso, “fa bene la mamma ad accarezzarsi il pancione: un gesto d’affetto verso il bambino che ancor prima di nascere si prende cura di lei”.
Ecco un caso in cui la fisiologia parla con linguaggio forse più chiaro di quello della filosofia.

(Fonte: Aldo Maria Valli, Piùvoce.net, 11 gennaio 2011)

Nessun commento: