martedì 10 maggio 2011

Islam: la necessità di difendere l’identità nazionale

Dallo scorso 11 aprile è entrato in vigore in Francia il divieto di vestire il burqa o il niqab, indumenti che nascondono completamente il viso e l’identità delle donne. La nuova legge, fortemente voluta dal presidente Sarkozy, prevede multe fino a un massimo di 150 euro per le recalcitranti, che potrà essere accompagnato dall’obbligo a partecipare a un corso di educazione civica e cittadinanza francese. La comunità musulmana francese è la più numerosa d’Europa: circa 7 milioni, secondo il demografo francese Gourévitch, con 2.125 luoghi di culto islamici (2008) su un totale di oltre 9 mila luoghi di culto islamici in tutta Europa.
La legge rimane controversa nella sua applicazione, mentre nel Paese continua a montare il dibattito sull’identità nazionale. Da una parte, si insiste sulla esigua minoranza di donne musulmane che indossano il niqab, mentre dall’altra la tradizione e il costume si sentono minacciati da questi comportamenti sociali che esulano dal normale. In contemporanea, su “Famiglia Cristiana” del 12 aprile è apparso un editoriale sul Bangladesh, dove si esprime meraviglia e preoccupazione per lo sciopero generale indetto dal locale partito islamista contro il pacchetto di leggi per l’uguaglianza dei diritti delle donne varate dal Primo Ministro Sheikh Hasina.
Due esempi di diversa percezione di una problematica che apparentemente è del tipo religioso, ma che nella sostanza va sempre più a interagire nel sociale e nel modo di vivere quotidiano delle nostre società. Certamente non è l’Islam in quanto religione che va messa in discussione. Il Corano è considerato dai musulmani come il verbo di Dio al popolo e, in quanto tale, è logico che il mondo islamico lo segua nell’essenziale. Ben diverso è il riflesso sociale che questa religione impone.
A differenza del Cristianesimo e in una certa parte anche il Giudaismo, il Corano vincola il comportamento e il modo di vivere del credente musulmano a dei crismi, poi legiferati attraverso la sharija, che sono propri di quella cultura, ma che differiscono, se non addirittura si scontrano, con il costume e la tradizione di vita occidentale. L’uso del velo ne è un esempio. Secondo il Corano la parola nijāb ha il senso di “cortina”, “tenda” per indicare la condizione di “isolamento” da considerare per le mogli del Profeta Mohammed: «quando domandate un oggetto alle sue spose, domandatelo restando dietro una tenda [nijāb]. Questo servirà meglio alla purità dei vostri e dei loro cuori» (Sura XXXIII, 53).
Il nijāb indica dunque modestia e rispetto. D’altra parte il velo per le donne è una condizione acquisita dal mondo arabo da altre culture, in particolare quella greca e latina-mesopotamica. Sta di fatto, però, che nell’era moderna i movimenti “femministi” occidentali sono andati sempre più verso la completa liberalizzazione dell’immagine della donna, mentre il contrario è avvenuto nel mondo islamico. In Tunisia, Habib Bourguiba, all’indomani dell’indipendenza (1957), vietò il velo nell’amministrazione pubblica e sconsigliò fortemente alle donne di portarlo in pubblico. Così è stato sino alla “Rivoluzione” di questi giorni. Le aperture alla democrazia, che si vanno affermando sempre più, hanno portato anche a un ritorno alla cultura tradizionale.
A prescindere da devianze “islamiste”, quali possono essere considerate i picchettaggi regolarmente applicati da uomini barbuti all’ingresso delle principali stazioni della metropolitana intesi a vietarne l’ingresso alle donne senza velo, nella Tunisia di oggi si fa sempre più sentire il dettame coranico tradizionale. Alla monogamia, applicata da Bourguiba con legge costituzionale sulla parità dei diritti, oggi il 74% della popolazione maschile tunisina contrappone il volere coranico per “possedere” sino a quattro mogli. Le motivazioni? Da una parte rappresenta un modo per diminuire il tasso di disoccupazione (una volta sposate le donne, secondo Corano, diventano economicamente dipendenti dall’uomo), e dall’altra, poiché la percentuale di maschi (43%) in Tunisia è nettamente inferiore alle donne, queste ultime potrebbero avere maggiore possibilità di sposarsi di quanto possa offrire oggi la monogamia.
Nella sostanza, il tutto volge a mettere ben in evidenza quella che gli occidentali chiamano la “condizione femminile” nel mondo islamico. Una conferma della differente visione sociale della donna che l’Islam mostra nei confronti dell’occidente è sotto i nostri occhi per quanto succede a Lampedusa. Negli ultimi tre mesi sono approdati 26.000 rifugiati-clandestini, nella totalità di religione musulmana e in buona parte di provenienza tunisina. Come mai il 98% di questi sono tutti uomini? La risposta la si può trovare nell’interpretazione che i moderni tunisini danno a quella forma di “modestia e rispetto” che il Corano impone alla donna: «le femmine, a casa devono rimanere!».
Quando si parla di Islam ci si deve quindi riferire a una cultura con regole sociali diverse dalla nostra, se non di una civiltà che trova le sue radici in quella che il mondo musulmano considera la parola di Dio. In particolare è fondamentale considerare il ruolo della “donna” ai fini della procreazione. Un musulmano non potrà mai rinnegare la propria religione e nel caso di matrimonio misto, con donna di altra religione o atea, i figli ai fini della “civiltà” di appartenenza saranno comunque considerati “musulmani”. La donna è quindi considerata solo come umile strumento di procreazione: a lei non è richiesta l’abiura della propria religione: non ha importanza! In Europa la percentuale di musulmani è al 7% con una previsione al 2030 di oltre il 20%. Dal 2009 la percentuale di migranti musulmani verso l’Europa ha raggiunto quasi la totalità.
Non si tratta più solo di un’emergenza “clandestini”. Quello che andrà in crisi è anche la nostra “identità” se non si penserà in tempo a difendere degnamente le nostre radici culturali e sociali. L’Islam è una civiltà che non ci appartiene, anzi: sotto molti punti di vista, primo fra tutti la condizione femminile, cozza violentemente con il nostro sistema di intendere la vita. Per difendere la nostra concezione di vita esiste una sola via d’uscita: esigere dai nuovi arrivati il pieno rispetto della nostra identità e il categorico rifiuto ad accettare comportamenti e tradizioni sociali che non appartengono al nostro retaggio.

(Fonte: Fabio Ghia, Corrispondenza Romana n.1190 del 7/5/2011)


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