La vasta ed animata discussione suscitata nei media dalle recenti dichiarazioni del Prof.Roberto De Mattei circa la concezione cristiana del male, ha dimostrato quanto questo argomento tocchi sempre la sensibilità di un grandissimo numero di persone credenti e non credenti, ma purtroppo ha dimostrato anche, come è attestato dagli interventi di certa stampa cattolica di larga diffusione, l’esistenza, tra gli intellettuali cattolici e certamente anche in certi settori della teologia, dell’incapacità di affrontare una questione così seria e qualificante l’essere cattolico con la dovuta preparazione dottrinale e fedeltà al Magistero della Chiesa, col risultato inevitabile di prolungare con discorsi fuorvianti inveterati pregiudizi ed oscurare il gravissimo problema anziché contribuire ad illuminarlo.
La risposta alla domanda agostiniana unde malum? costituisce uno dei pregi maggiori della millenaria sapienza cristiana, fondata sulla Scrittura e sulla Tradizione interpretate dal Magistero della Chiesa, esprimentesi periodicamente nei simboli della fede e nei catechismi solitamente pubblicati a seguito di importanti Concili Ecumenici.Noi cattolici abbiamo senza nostro merito una grande responsabilità nell’aiutare anche gli uomini di oggi ad orientarsi circa questa questione, abbiamo da Cristo una luce da offrire, un conforto da dare, siamo un sale che deve dar sapore; ma se anche il sale diventa insipido, con che cosa lo si potrà salare? O se il linguaggio cristiano ripete gli stessi errori del mondo, come il mondo potrà essere salvato?
La luce che viene dalla fede naturalmente non pretende di spiegarci il perché ultimamente Dio, nei suoi imperscrutabili e sapientissimi disegni d’amore, di giustizia e di misericordia, ha permesso l’esistenza del peccato prima nella creatura angelica (il demonio) e poi in quella umana (la coppia dei nostri progenitori), con le ben note devastanti conseguenze in tutto il corso della storia umana dei singoli e delle società, come narra con chiarezza il primo libro della Sacra Scrittura e vien spiegato ulteriormente da S.Paolo (il “peccato originale”). Infatti, se Dio avesse voluto, avrebbe potuto creare un mondo libero dal peccato e dal male, che è sua conseguenza e castigo.
La rivelazione cristiana ci dice però che cosa è il male, da dove è nato, a che cosa porta, qual è il suo significato e soprattutto come lo si toglie.
Già una sana metafisica ci insegna che il male non è una sostanza, non è un’entità positiva, ma è un’assenza di essere, è una privazione, una mancanza, un difetto, una carenza di bene dovuto in un certo soggetto, detto “malato”, se si tratta di sofferenza o “malvagio” se si tratta di cattiva volontà (il peccato).
Il male, ci insegna la Scrittura, trae origine da un atto cosciente e volontario del libero arbitrio della creatura, ossia il peccato, come ho accennato sopra. Il peccato a sua volta, secondo S.Paolo conduce alla morte. Ogni peccato per la Bibbia è quindi sempre contro la “vita”.
Chi però fa il male senza saperlo o involontariamente resta innocente. Il male non è assolutamente voluto da Dio, bontà infinita. Egli però lo ha permesso e lo permette in vista di donare all’uomo quel maggior bene che è Cristo, sì da consentire all’uomo di divenire “figlio di Dio”, una condizione di vita, che non è altro che la vita cristiana, la quale non ci sarebbe stata – così almeno ci dice la Rivelazione – se il peccato non ci fosse stato.
Da qui il paradosso ben noto della liturgia pasquale: “O felice colpa, che hai meritato tanto Redentore!”. Infatti, se noi possiamo diventare in Cristo figli di Dio, è perché Egli è disceso dal cielo propter nostram salutem, per liberarci dal peccato.
Il male è sin dagli inizi della storia dell’uomo conseguenza del peccato originale e spesso anche di nostre colpe personali nella vita presente. Il male di pena o punizione o “castigo” è, in linea di principio, conseguenza del male di colpa, ossia del peccato. Non è tanto una pena che Dio ci infligge dall’esterno, come potrebbe fare un giudice umano - anche se la Bibbia dice che Dio “castiga” -, ma è piuttosto una conseguenza necessaria, scaturiente dall’intimo stesso dell’atto peccaminoso, della stoltezza che ci ha fatto peccare.
Che al peccato debba seguire una giusta pena è un principio di giustizia naturale accettato dalla Bibbia e da ogni uomo che abbia un minimo di senso della giustizia. Infatti, se un delinquente non è giustamente punito, qualunque cittadino, anche non credente, sente che non è una cosa giusta.
Ora Dio è giustissimo e per questo in linea di principio punisce la colpa, salvo che il peccatore non sia pentito, almeno in certi casi, come la storia del figliol prodigo o della adultera pentita del Vangelo. Ma il diritto cristiano assume di norma il principio del diritto civile della punizione dei criminali. Le sventure collettive possono essere castighi divini – vedi per es. Sodoma e Gomorra – ma non sempre necessariamente. In ogni caso sono sempre conseguenze del peccato originale. Esse possono colpire promiscuamente peccatori e giusti.
Giustizia vuole e la Bibbia conferma che per i peccatori c’è un meritato castigo. Castigo che sarà eterno se in punto di morte non si pentono. Quanto ai giusti ed agli innocenti – pensiamo ai fanciulli innocenti, e qui abbiamo il principio più commovente e sconvolgente della salvezza cristiana – la loro sofferenza, come ci ha ricordato di recente il Papa proprio a proposito delle catastrofi che tanto hanno fatto parlare di sé, è coinvolta in un misterioso piano e destino di amore salvifico.
Qui raggiungiamo il Dio misericordioso, il Quale è portato a rimettere o perdonare il peccato, ad “aver-cuore-per-il-misero” - e quale miseria maggiore di quella del peccato mortale, meritevole della dannazione eterna? - potere divino di perdono che, come insegna la Bibbia, appartiene solo a Lui, perché secondo la Bibbia il far risorgere l’uomo dal peccato è come risuscitare un morto, potere che evidentemente spetta solo a Dio.
Pertanto il perdono del peccato nel sacramento della penitenza suppone nel confessore una partecipazione al potere divino di rimettere i peccati, mentre il perdono che diamo ai fratelli è pure partecipazione a questo divino potere. Ricordiamoci peraltro che nel recitare l’“atto di dolore” quando ci confessiamo, riconosciamo d’aver meritato i divini “castighi”. Il che non toglie che Dio ce li risparmi grazie al suo perdono.
E qui giungiamo alla risposta più caratteristicamente ma anche più paradossalmente cristiana sul perché del male e soprattutto circa la liberazione dal male, male del peccato e male della sofferenza. Qui entra in gioco la sofferenza redentrice ed espiatrice dell’innocente in Cristo, l’Innocente per eccellenza che salva il mondo col suo sacrificio, attualizzato nella grazia dei sacramenti, soprattutto il battesimo, la penitenza e l’eucaristia, momento supremo, quest’ultimo, della vittoria sul male, momento, come dice il Concilio Vaticano II, nel quale si attua la nostra Redenzione, la remissione dei peccati.
Ma che ha a che fare l’amore col male? L’idea del male non evoca forse piuttosto quella dell’ingiustizia, dell’odio, della sofferenza e della morte? Certamente. Ma sta qui la meraviglia del piano cristiano della salvezza: l’utilizzare per amore quel male di pena che è conseguenza del peccato per trasformarlo, in Cristo, con Cristo e grazie a Cristo, in espiazione e riparazione del peccato, sicché siamo riconciliati col Padre che così, per amore, perdona i nostri peccati, ci salva dalla morte eterna e ci dona la vita eterna.
Il cristiano dunque nella sofferenza che lo colpisce vede un gesto d’amore del Padre nei suoi confronti, vede l’invito del Padre ad una risposta d’amore, che soddisfa alla giustizia del Padre riparando al peccato, e che ancor più esprime l’amore del figlio di Dio per il Padre, tornando pentito al Padre.
L’aspetto soddisfattorio del soffrire cristiano non può essere sottaciuto col fermarsi solo, come si fa a volte oggi, sul gesto d’amore nostro vero il Padre e del Padre nei nostri confronti. Infatti, se non tenessimo conto del fatto che la croce è sacrificio cultuale, il fatto che Dio permetta la sofferenza apparirebbe una derisione di Dio nei nostri confronti. Infatti l’amore non manda le pene ma le toglie.
Dunque il fatto che Dio permetta la sofferenza non va spiegato semplicisticamente con lo “amore”, ma anche con l’esigenza della divina giustizia. Tuttavia il cristiano, all’avvento della sofferenza, non vede solo l’occasione per espiare, quanto piuttosto la venuta dell’amore misericordioso del Padre, il quale per misericordia ci ha dato Cristo nel quale possiamo sdebitarci del peccato ed esprimere nei nostri limiti l’infinito amore di Cristo per il Padre.
I soggetti umani, come i bambini sofferenti anche non battezzati, che non possono fare queste considerazioni, li dobbiamo pensare comunque coinvolti, senza che ne siano coscienti, in questo piano d’amore e di giustizia, per cui anch’essi in Cristo, salvano se stessi e il mondo.
Il cristianesimo non distoglie lo sguardo dalla bruttezza del male, cercando palliativi o false giustificazioni o esagerandone la portata, come è avvenuto nelle filosofie pagane, dualiste (manicheismo) o panteiste (India), o idolatriche (satanismo), scaricandosi sull’azione del demonio, col quale occorre scendere a patti (superstizione), ritenendolo effetto di un dio cattivo (marcionismo), voluto da Dio (Ockham, Calvino), un nemico invincibile ed eterno (pessimismo), ponendone l’origine nella materia (gnosticismo), ponendo il male in Dio (Böhme), ritenendolo cosa benefica, normale e naturale, espressione dell’ordine cosmico (stoicismo), necessario, coercitivo e inevitabile (fatalismo), comunque perdonato e coesistente con la grazia (Lutero), “logico” o “razionale” (Hegel), ripetitivo, ciclico ed eterno (Nietzsche) o di attenuarne l’esistenza sino a renderlo un’apparenza illusoria (Spinoza). Ma il male non è neppur del tutto assurdo o privo di senso (esistenzialismo). Tutte queste concezioni non risolvono ma aggravano il problema del male.
Il male di per sé è un fatto negativo, tutt’al più, come male di pena, è giusto castigo; ma come male di colpa è ingiustizia e suscita in una sana coscienza morale sdegno, orrore ed irrefrenabile ripugnanza.
Amare il male è o perversione o incoscienza o demenza. Anche il peccatore che fa il male, lo giudica sempre, seppur arbitrariamente, un bene. Il male come tale, in quanto carenza di essere, non può neppur essere oggetto del volere, il quale ha bisogno sempre di dirigersi verso un bene. Anche chi si suicida, pensa che per lui sia bene così. Anche il nichilismo più radicale ha bisogno di appigliarsi a qualche oggetto. Certo questo non giustifica lo stupido e comodo buonismo di oggi per il quale tutti sono in buona fede, nessuno ha cattive intenzioni e nessuno ha cattiva volontà. Tuttavia resta vero che il male non potrebbe ingannarci e non potrebbe ingannare se non si presentasse sotto le vesti del bene.
Il bene può esistere senza il male (si pensi all’Assoluto divino), ma il male ha bisogno sempre di parassitare un bene che esso corrode e corrompe. Il male del peccato non è altro che un falso bene o un bene apparente. Quaggiù esiste il male, ma in paradiso saremo liberi da ogni male.
Il cristianesimo cancella il male di colpa e trasfigura il male di pena in principio di espiazione e di salvezza, addirittura lo inserisce nel torrente dell’amore e della misericordia. Il cristianesimo ci insegna che il male del quale dobbiamo veramente preoccuparci non è tanto il male di pena, quando quello di colpa, il peccato: tolto questo, anche il male di pena ha segnato la sua fine, se non nella vita presente, certo in quella futura.
Certo il male di per sé non è ragionevole, non ha diritto all’esistenza, non è né logico né necessario; non è neppure un semplice incidente di percorso, è una cosa seria, serissima; eppure può essere vinto; in fondo, ci dice già la filosofia, è solo accidentale, contingente e può passare.
Il prendere alla leggera il problema del male o l’averne un’idea sbagliata può condurre alla tragedia ed alla dannazione anziché alla redenzione e alla salvezza. Qui è fondamentale sapere con certezza che cosa è male e che cosa è bene, conoscere i divini comandamenti e metterli in pratica.
Il cristianesimo ci insegna come evitare il male e come farlo passare. Il male di pena non termina subito, ma solo gradualmente, ed occorre utilizzare lo stesso male di pena, come ci ha insegnato Cristo. Il peccato invece, ossia il male morale, che è il male più serio, può essere eliminato subito con la penitenza, la conversione e il perdono divino.
Il male esiste per un certo motivo, per una certa “ragione”: perché, come ho detto, il peccato è entrato nel mondo. Ma il cristianesimo dà un nuovo “perché” al male, gli dà senso nuovo, non certo che lo approvi - il male resta sempre il male -, ma in quanto diventa in Cristo, nel modo che ho detto, via di salvezza.
E di fatto la vita cristiana pone fine al male nel modo suddetto dandogli un significato, ed ordinandolo a un bene superiore grazie all’onnipotenza ed alla bontà divine. In questa visuale Léon Bloy diceva: “Soffrire passa, aver sofferto non passa”. Cristo risorto possiede ancora le piaghe della crocifissione non come segno di sofferenza e di umiliazione, ma come titolo di gloria.
Se dunque Dio permette il male non è perché Egli sia impotente o cattivo, ma perché proprio permettendo il male mostra la sua onnipotenza ricavando un maggior bene dal male e la sua bontà donandoci con Cristo un bene superiore - la vita cristiana - a quello che avremmo avuto se il male non ci fosse stato.
Indubbiamente, anche dopo le spiegazioni che ci dà il cristianesimo, il mistero del male resta - mysterium iniquitatis, come dice S.Paolo -. La ragione umana dà una qualche spiegazione del male, come ho accennato sopra, senza che ciò voglia dire che il male abbia una buona ragione di esistere. Tuttavia, come è dimostrato dalla storia e confermato dalla fede, l’uomo con le sue sole forze non è in grado di vincere il male. Una luce decisiva sulla questione del male non ci viene dalla ragione ma dalla fede, e la storia del cristianesimo, soprattutto dei santi, ce ne dà testimonianza. La ragione ci può dire che il male può essere vinto grazie all’onnipotenza ed alla bontà divine. Ma il sapere come può essere vinto ce lo dice solo il cristianesimo.
(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, Riscossa Cristiana, 23 aprile 2011)
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