Il Vescovo di Padova Mons. Antonio Mattiazzo, ha scelto di non partecipare ai funerali dell’alpino Matteo Miotto per non incrementare un’esaltazione retorica che tende a trasformare in eroi i caduti in missioni militari che pretendono di salvaguardare la pace servendosi delle armi. Non condivido tale scelta basata, a mio modesto avviso, su una incompleta valutazione degli eventi in terra afghana.
«L’alpino Matteo Miotto riposa in pace, la sua memoria ancora no. Gli sopravvive un bel dilemma all’italiana,un dilemma non nuovo, né tanto meno così avvincente: è un eroe o non è un eroe?
Singolarmente, questa volta è lo stesso vescovo di Miotto a risollevare la questione. Il soldato era di Thiene, la diocesi è quella di Padova. E proprio la guida spirituale di questa diocesi ha suscitato clamore con la decisione di non celebrare i funerali privati del caduto, limitandosi a inviare una lettera di cordoglio. «La diocesi era rappresentata», ha spiegato monsignor Antonio Mattiazzo ai giornalisti locali. E forse poteva fermarsi lì. Invece ha tenuto ad un’aggiunta molto chiara: «Certo sono dispiaciuto che il giovane sia morto. Ma andiamoci piano con l’esaltazione retorica. Non facciamone degli eroi. Quelle non sono missioni di pace. Vanno lì con le armi, dunque il significato è un altro, non dobbiamo dimenticarlo...».
Sua eccellenza, indubbiamente, solleva polvere con una presa di posizione piuttosto ideologica. Ai cristiani qualunque, che si mettono in coda dietro a una bara, importa poco che dentro ci sia un eroe. Purtroppo c’è un ragazzo,che comunque ha lasciato la vita in circostanze molto particolari, servendo una bandiera e una Patria, regalando scritti toccanti nel segno di un’idea. Sembrerebbe naturale che davanti al corteo funebre, nell’ultimo giorno, ci sia il suo vescovo. In questo caso, il suo vescovo non ritiene degna la circostanza. Prende le distanze. Certo monsignor Mattiazzo ha mille ragioni quando vuole sottrarsi al coro retorico. Troppo spesso l’enfasi patriottica e militaresca sovrasta impietosamente il lutto vero. Normale e forse pure doveroso che il religioso si neghi al rito profano dei superlativi epici. Ma nella sua posizione avrebbe un’opportunità unica: salire sul pulpito per indirizzare le esequie in prima persona, celebrandole secondo la propria convinzione di fede, nel modo più giusto.
Invece il soldato Miotto trova un vescovo che per evitare la retorica decide di scantonare. Con tutto il rispetto, difficile comprendere. Impossibile condividere. Ma c’è di più. monsignor Mattiazzo esprime pure tutto il proprio disaccordo sulla natura della spedizione italiana, schierandosi apertamente: non andiamo a portare la pace, andiamo a fare la guerra.
Torna a riaffiorare l’annosa e irrisolta questione. Il vescovo l’affronta nel modo più lineare e intransigente: dove ci sono armi, c’è guerra. Una Chiesa evangelica e spirituale in senso stretto non può accettare in nessun caso il ricorso alla forza. Questa la nobilissima e rispettabilissima posizione ideale. Ma le cose, nella pratica, sono maledettamente più complicate. Ci sono momenti e circostanze che richiedono la forza per difendere gli indifesi. La stessa Chiesa, anni fa, fu d’accordo con l’intervento militare per fermare gli orrori in Kosovo. E certo non avrebbe niente da ridire se in diverse parti del mondo, oggigiorno, qualche soldato in più difendesse i cristiani perseguitati da satrapi e regimi, da odio e intolleranze.
Sono i discorsi di sempre. Dalla sua nascita, la Chiesa è divisa sull’interpretazione del messaggio. Ne fu degnissimo testimone lo stesso San Francesco, che persino tra i suoi vide nascere divisioni molto aspre: da una parte l’applicazione rigida e letterale del Vangelo, che addirittura ipotizzava l’assenza di cattedrali e monasteri, di regole e di gerarchie, dall’altra una visione più storicizzata e più realistica, dunque aperta a strutture, norme, istituzioni. Passano i secoli, ma siamo sempre al punto di partenza. Le armi mai, le armi qualche volta sì. Però neppure il vescovo di Padova, nel suo impeto pacifista, può negare una verità evidente: tutto possiamo pensare dei nostri soldati, non che siano in giro per il mondo a scatenare tensioni, violenze, ingiustizie e soprusi. Se su un elemento questa povera nazione raccoglie l’unanime ammirazione internazionale, questo è indubbiamente l’approccio umano e leale, pacifico e moderato delle nostre spedizioni.
Monsignore, sia detto con tutta l’umiltà del caso: continui a credere nei suoi ideali assoluti e a difendere le sue posizioni intransigenti, ma provi a scindere tra le imperscrutabili strategie politiche e il ruolo dei nostri militari. Forse, ripensandoci, il funerale di Matteo Miotto le apparirà come una grossa occasione persa. Lei si è trovato nella condizione di spazzare via la retorica e riconoscere semplicemente l’importanza di una morte. Non era necessario chiamarlo eroe. Solo per le lettere che Matteo ha lasciato scritte, un buon vescovo avrebbe sicuramente trovato le parole per dipingerlo come un ragazzo generoso, pulito, idealista. Un uomo giusto. Più di un eroe».
(Fonte: Cristiano Gatti, Il Giornale, 24 gennaio 2011)
2 commenti:
mah....io propongo pane e marmellata per il prelato!
Mi viene solo in mente un proverbio antico, cristiano: "Le vie dell'inferno sono lastricate di buone intenzioni". Ma il prelato ha mai pensato che se i Turchi non fossero stati sconfitti (CON LE ARMI) a Lepanto, a Vienna e altrove, lui oggi DOVREBBE fare il musulmano (non c'è libertà di coscienza in quella religione) e inchinarsi ad Allah, di cui tutto si può dire ma non che assomigli al Dio cristiano?
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