La
violenza degli “indignati” è sotto gli occhi di tutti, e il fatto che non si
sia fermata di fronte ai più sacri segni della fede cristiana la dice lunga
sulle prospettive che si aprono per chi vuole percorrere questa via.
E non
credo neppure alla distinzione: indignati = non violenti; Black bloc =
violenti. C’è il seme della violenza nella concezione, nella cultura di chi
esprime l’odio per chi è su posizioni diverse. C’è il seme della violenza nelle
parole di Di Pietro, quando afferma che, di fronte alla crisi in cui viviamo,
“può scapparci il morto” (e qui onore alle forze di polizia che, a Roma, non si
sono fatte prendere la mano…). C’è il seme della violenza in chi non riconosce
i principi non negoziabili (vita, famiglia, educazione) per sostituirli con la
denuncia a senso unico della immoralità dei politici (del “politico”). C’è il
seme della violenza in chi propone una onorificenza, tra l’altro nel giorno del
santo patrono della città, per chi ha procurato la morte alla figlia,
continuando in questo modo quella orribile violenza che non si è fermata
neanche di fronte agli affetti familiari.Però, di fronte a tutto questo, e a quelle immagini che speravamo di non vedere più (per chi ha vissuto gli incubi del ’68, degli anni ’70 e via dicendo…) cresce una domanda urgentissima: “ma chi educa questa generazione?”
Abbiamo da un lato accettato la emarginazione della Chiesa, ridotta ad agenzia morale che si vorrebbe rendere il notaio dei valori (e solo quelli) riconosciuti dal pensiero comune dominante; dall’altro abbiamo una chiesa che, in buona parte, dimenticando il magistero altissimo di Benedetto XVI (e prima di lui di Giovanni Paolo II) rinuncia ad annunciare Cristo, il vivente nella Chiesa, per accettare quei valori “comuni” che, senza il fondamento vivente di Gesù, sono parole incapaci di muovere e di commuovere l’animo giovanile.
E faccio questa ulteriore riflessione: noi, come Chiesa, attraverso l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, raggiungiamo circa il 90% dei giovani italiani. Ma quale esito ne abbiamo? Sarà mai possibile che la fede (certo, non il catechismo, perché la scuola non è la parrocchia) non sappia diventare cultura che parla al cuore e alla mente dei giovani?
Bisogna ritornare alla evangelizzazione, attraverso tutti gli strumenti possibili (“opportune et importune”, diceva San Paolo), quella evangelizzazione che è via alla promozione umana.
E l’esperienza dice che i giovani sono sensibili a questo richiamo, e sanno anche muoversi con generosità.
Basta solo che trovino maestri, maestri in umanità, cioè testimoni, che smettano di fare il verso al moralismo imperante, ma annuncino Cristo, “il più bello tra i figli dell’uomo”, come la ragione del vivere, il cammino della speranza.
Non solo li aspettiamo, questi maestri, ma ritengo che, proprio perché ci sono e non sono pochi, imparino a fare sentire la loro voce, e a determinare il lavoro comune.
Qui, col nostro sito, ci proviamo e qualche volta ci riusciamo.
(Fonte:
Cultura cattolica.it, 16 ottobre 2011)
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