mercoledì 26 ottobre 2011

Lo chiameremo Facebook. E il bebè diventa oggetto

“Hai Facebook? “. “Certo che ce l’ho. Mio figlio è Facebook”. Il verbo “essere” non è un refuso di stampa ma è la vera e propria notizia. Nel giro di pochi mesi due coppie hanno chiamato il proprio figlio “Facebook” (qualche tempo fa nacque un bimbo di nome Yahoo). La prima coppia è egiziana: si tratta di un omaggio al social network più famoso al mondo il quale ha reso possibile la coordinazione on line tra i vari gruppi di rivoltosi che hanno rovesciato il governo di Mubarak.
La seconda è brasiliana. In quello spazio virtuale si sono conosciuti e lì è sbocciato il loro amore fatto di milioni di bytes. In realtà il figlio di quest’ultima coppia si chiama esattamente “Facebookson”, cioè figlio di Facebook. Questo perché la preoccupazione degli ufficiali dell’anagrafe non era tanto rivolta al cattivo gusto dei genitori, ma alla possibilità che il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, potesse fare loro causa per questioni di copyright sul marchio. Il risultato è che questo bebè sembra essere più figlio di Zuckerberg che di mamma e papà.
Qualche considerazione. Innanzitutto ci mettiamo dalla parte di queste povere creature che dovranno per tutta la vita spiegare agli altri perché si portano appresso un simile castigo di nome. Soprattutto quando Facebook forse non esisterà più, dato che queste invenzioni informatiche durano meno di un governo della vecchia repubblica (chi si ricorda ad esempio di My Space, social network che guadagnò cifre da capogiro e che usavano tutti?). In secondo luogo non è proprio il massimo della vita chiamarsi “Annuario scolastico”, perché questo è la traduzione letterale del termine “facebook”. Infatti Zuckerberg prese spunto da questi annuari, nei quali ci sono tutte le foto degli studenti di un liceo o di un’università, per inventare la sua piattaforma. Infine è indubbio che i due piccoli diventeranno loro malgrado testimonial della creazione di Zuckerberg, spot viventi di questo prodotto.
E qui sta il punto. Si è deciso di assegnare un nome ad un essere umano che identifica un prodotto. E’ un altro segnale della cosificazione della persona (per la proprietà transitiva va da sé che ora agli animali diamo nomi cristiani). In particolare – e le pratiche di fecondazione artificiale e clonazione comprovano ciò – il figlio è percepito come “bene mobile”, oggetto magari di lusso che arrederà l’esistenza. Nuovo il figlio, nuovo il nome dunque a designare un “articolo” che prima non c’era. E se nascesse a queste coppie un secondo figlio, logica vorrebbe che si assegnasse loro il nome di Facebook.2, la versione avanzata. La generazione è ormai sottoposta ad update.
Ma questa vicenda dai tratti tragicomici è paradigmatica anche perché ci dà la misura di quanto stia accelerando il processo di scristianizzazione. Siamo passati in poco tempo dai santi ai numi tutelari virtuali. Fino a ieri si poneva al neonato un nome di un santo. Farlo era come vincolare quel cittadino del Paradiso a fare bene il proprio dovere di santo e cioè a proteggere il piccolo, nella speranza poi che potesse infondergli un po’ delle sue virtù. Appena venuti su questa terra già si pensava alla patria celeste, già si sottoscriveva con l’assegnazione del nome del santo un’ipoteca per il Cielo. Il santo-beato-martire di cui portiamo il nome, nella prospettiva cristiana, è un membro di un club esclusivo assai influente per gli affari terreni e il cui aiuto dunque deve essere sempre invocato. I piccoli Facebook a chi potranno mai rivolgersi? A Zuckerberg? E poi quando festeggiare l’onomastico? Il giorno di fondazione di Facebook?
Inoltre la prassi consolidata, almeno fino all’altro ieri, di scegliere un nome comune privilegiava più la tradizione che l’eccentricità. Il nome non veniva scelto perché di moda o perché “suona bene” o perché originale, bensì perché era il concentrato di una cultura sapienziale vecchia di secoli se non di migliaia di anni. Innanzitutto a motivo del significato del nome stesso: “Emanuele” Dio con noi, “Alessandro” protettore degli uomini, “Riccardo” audace, “Mirella” degna di ammirazione. Ora, ad essere sinceri chiamarsi “faccia-libro” è davvero assai svilente. In secondo luogo l’ultimo arrivato in casa portava in genere un nome che era appartenuto ad un suo ascendente, al fine di perpetuare in lui lo spirito di una famiglia. Un segno della continuità delle tradizioni familiari. Il nome così diventava intriso di affetto, pronunciarlo era evocare la stessa persona del nonno o dello zio che non c’era più.
La notizia dei genitori che infliggono questa condanna anagrafica ai figli si sposa bene con un’altra notizia simile proveniente dall’Inghilterra: lì si può cambiare nome al costo di 33 sterline (consigliamo ai piccoli Facebook di trasferirsi in Inghilterra appena possibile). Nel giro di un anno c’è stato un boom di richieste, con un’impennata del 30%. I motivi sono dei più vari: cercare di sfuggire ai creditori e al fisco, anglizzare il proprio nome se straniero, fondere in unico cognome quello della moglie e del marito. Ma ovviamente ci sono anche ragioni ben più bizzarre. Tra queste svettano gli omaggi allo star system. E così si contano 30 Michael Jackson, 5 Amy Winehouse, 15 Wayne Rooney e 5 David Beckham. Una sorta di sbattezzo a favore di nuovi santi popolari non canonizzati. Già era accaduto al tempo dei futuristi tra i cui adepti si trovavano figli chiamati Ascensore o, con meno ardimento, Luce. Anche i comunisti in spregio alla tradizione cattolica chiamavano i propri pargoli ad esempio Primo, Secondo, Terzo ed Ultimo: meglio i numeri che i beati.
Ma perché cambiare nome? Da una parte questa moda è espressione delle derive di un certo capitalismo libertario: come si cambia auto così il nome, se è superato, se c’è ne uno più in voga, se è più trendy. Ma facendo così il nome diventa un gadget, un accessorio e perde la sua specificità, cioè l’individuazione della persona, la caratterizzazione semantica di un’unicità.
D’altro canto tale prassi è forse sintomatica del fatto che non vogliamo più accettare di essere chi siamo. E’ segno che l’identità è percepita come un vincolo, un fardello di cui liberarsi. Se posso decidere di cambiare con la chirurgia plastica la mia faccia (la parte più identificativa di noi), il mio sesso, se posso scegliere di avere un figlio con gli occhi celesti e i capelli color dell’oro, perché non decidere di mutare ciò che nominalmente mi identifica? Sbarazzarsi del vecchio, non scelto da me, per far posto al nuovo. E’ solo il soggetto l’unico artefice della sua vita: l’imposizione da parte dei genitori del nome viene percepita come ostacolo alla propria libertà. Nasce l’autonomastica, l’autodeterminazione onomastica.

(Fonte: Tommaso Scandroglio, La Bussola Quotidiana 24-10-2011)


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