Non è cosa di nostra competenza. Questa la risposta dell’Aifa al ministro Sacconi che, dopo un’approfondita indagine parlamentare, chiedeva che la pillola abortiva venisse somministrata solo in regime di «ricovero ordinario», cioè in ospedale fino al compimento dell’aborto. L’Agenzia italiana del farmaco ha elegantemente declinato la richiesta: le nostre competenze in materia di dispensazione dei farmaci «sono limitate», ha spiegato. Risposta medicalmente pilatesca, quando è noto che in un alto numero di casi la somministrazione del farmaco abortivo dà luogo a emorragie e problemi, anche gravi, che la donna non dovrebbe trovarsi ad affrontare da sola. Risposta politicamente invece molto chiara, quando spiega come il pieno rispetto della legge 194 sia materia di competenza del Ministero – e che dunque se la veda lui.
Perché qui è il nodo politico del confronto. La 194 prevede che l’aborto avvenga in ospedale. Se si arrivasse invece a delegare all’ospedale solo la somministrazione della pillola, mandando poi le donne a casa, la legge 194 sarebbe scavalcata. In una sorta di privatizzazione di fatto dell’aborto. Utile a sgravare i medici da un compito pesante, e il servizio sanitario dalle spese degli interventi chirurgici. Ma poco conciliabile col testo di una legge che almeno nel suo incipit affermava di riconoscere «il valore sociale della maternità e la tutela della vita umana dal suo inizio».
Che cosa si tutela, se la Ru486 va presa in fretta, entro la settima settimana di gravidanza, e non c’è neanche il tempo di quella settimana di riflessione prevista dalla 194? Chi si tutela, se passa la vulgata che per abortire ora "basta una pillola"? Non certo le adolescenti, né la loro consapevolezza di cos’è un figlio, e cos’è buttarlo via. Che cosa sia poi davvero, di sofferenza, il lungo velenoso "lavoro" dell’aborto chimico, lo scopriranno poi, sulla pelle.
Sembra paradossale che proprio un giornale cattolico debba "difendere" la legge sull’aborto così come fu concepita trent’anni fa. Ma quella legge, inaccettabile per i credenti, era almeno il compromesso fra parti politiche che, nel legalizzare l’aborto, avevano ancora uno sguardo, sia pure a livello di princìpi, alla maternità, giudicata come un bene da tutelare, e ai diritti del concepito: cui era dedicato il lungo articolo 2 sulla prevenzione dell’aborto.
Trent’anni dopo, quell’articolo è rimasto quasi lettera morta. Le «associazioni di volontariato» che avrebbero voluto aiutare le donne a tenersi il figlio sono state ostacolate e spesso demonizzate. Per trent’anni il leit-motiv costante invece è stato: «La legge 194 non si tocca». (Un Moloch, un dogma del laicismo, del femminismo e della sinistra. Secondo cui l’aborto è prima di tutto "diritto" da affermare).
Ma se il garbato declino di responsabilità dell’Aifa porterà come risultato a lasciare che le donne, ottenuta in fretta una pillola, abortiscano sole a casa loro, sarà nei fatti e idealmente, rispetto alla legge, un passo indietro, un venire meno a quello "sfavore" all’aborto che pure tra le righe del testo della 194 si avverte. Una scelta pragmatica, utile ai conti delle Asl; una scelta utilitaristica in linea con l’individualismo che ci domina. (Fare in fretta, senza nemmeno aspettare o aspettarsi l’aiuto di qualcuno. Abortire da sole, creando meno problemi possibile. E pazienza se a qualcuna magari andrà male).
Non è cosa, hanno detto, di nostra competenza. Dietro a una formula burocratica, una visione del mondo. Che una donna – povera, ricca, straniera – abortisca, e come, e la sua salute, son fatti suoi. Che questo avvenga secondo il dettato della legge, son fatti del Ministero. Perfettamente in linea, quelli dell’Aifa, con la mentalità comunemente dominante. E altrettanto dimentichi di quel bene che, pur ferito e sopraffatto, nel 1978 l’Italia ancora ricordava. L’aborto, sì, legale, ma maternità come un bene da sostenere. La vita umana un valore, «dal suo inizio». Quella pillola data in fretta, che porta la morte in solitudine, sembra il simbolo di un mondo in cui si vive per sé soli.
(Fonte: Marina Corradi, Avvenire, 3 dicembre 2009)
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