La notizia: niente più minareti in Svizzera. I quattro esistenti bastano e avanzano.
Domenica 29 novembre il 57,5% dei votanti ha approvato la messa al bando di nuovi minareti nel referendum promosso dalla destra nazional-conservatrice. Il sì all'iniziativa è stato infatti massiccio. Appena quattro dei 26 cantoni del Paese di 7,7 milioni di abitanti hanno bocciato l'iniziativa anti-minareti: Ginevra, Basilea città, Neuchatel e Vaud. Altrove ha ovunque vinto i sì all'iniziativa con percentuali significative, come in Ticino (68,09%), e punte oltre il 70% ad Appenzello interno.
La costruzione del primo minareto svizzero si deve al magnate del cioccolato Philippe Suchard, appassionato di architettura orientale, avvenuta nel 1865 a Serrière (cantone di Neuchatel). La prima vera moschea con minareto, invece, fu eretta nel 1963 a Zurigo. Il minareto di Ginevra è stato costruito nel 1978 e sono poi seguiti quelli di Winterthur (Zurigo ) e di Wangen bei Olten (Soletta).
Il “no” ai minareti non è un “no” al diritto di preghiera per i musulmani, ha esplicitamente affermato il parlamentare Oskar Freysinger dell'Unione democratica di centro, tra i promotori del referendum. «Il divieto dei minareti rappresenta un messaggio. La società civile vuole mettere un freno agli aspetti politico-giuridici dell'islam», ha detto Freysinger.
Per il governo e la maggioranza dei partiti che avevano fatto campagna contro l'iniziativa si tratta di una cocente ed imbarazzante sconfitta. L’establishment da una parte, dunque, e gli svizzeri dall’altra.
Grande sorpresa e delusione anche dei vescovi cattolici per il “no” ai minareti degli elettori svizzeri: «il sì al referendum aumenta i problemi della coabitazione tra religioni e culture» - afferma la nota firmata dalla Conferenza episcopale elvetica. In un’intervista a Radio Vaticana, il segretario della Conferenza episcopale svizzera, mons. Felix Gmur, ha affermato che i vescovi elvetici non sono "per niente contenti" del voto dei loro concittadini e che «il Concilio Vaticano II dice chiaramente che è lecita per tutte le religioni la costruzione di edifici religiosi, e anche il minareto è un edificio religioso».
I commenti: sentiamo cosa hanno da dirci in proposito due eminenti opinionisti:
a) Così si riscoprono le radici cristiane e la nostra cultura (di Vittorio Messori, Corriere della sera, 30 novembre 2009).
«La croce bianca in campo rosso della bandiera (quadrata, come quella vaticana, non rettangolare) sventola ovunque, in Svizzera.
È un land-mark onnipresente, è l’irrinunciabile segno d’identità dei 26 stati, suddivisi in 23 cantoni, dove quattro sono le lingue ufficiali, dove i cattolici convivono con i protestanti di molte chiese e confessioni e dove difformi al massimo sono le tradizioni.
La convivenza non è stata sempre idilliaca e ancora a metà dell’Ottocento «papisti», calvinisti, zwingliani, luterani si affrontarono duramente in armi. Cose gravi ma, comunque, cose tra cristiani che pregano lo stesso Dio e leggono la stessa Bibbia. Preti contro pastori: una guerra, ma in famiglia.
Così, la croce della bandiera ha potuto continuare a rappresentare la totalità di quella che — per aggirare la diversità linguistica— sui francobolli e sulla moneta si autodefinisce in latino: Confederatio helvetica. E i campanili delle chiese cattoliche come quelli dei templi protestanti hanno sempre contrassegnato gli scenari urbani come i romantici paesaggi montani .
Anche per questo è significativo l’esito del referendum indetto non tanto contro i luoghi di culto islamici quanto contro il manarah, il «faro» in arabo, il minareto che contrassegna gli spazi della preghiera musulmana.
Copiato dai cristiani, sostituendo alla cella campanaria il balconcino per il muezzin che cinque volte al giorno salmodia il Corano invitando alla preghiera, il minareto è parte imprescindibile della moschea. È il segno dell’islamizzazione: quando i turchi catturarono la preda più ambita, la veneranda Santa Sofia di Costantinopoli, la fecero subito «loro» lasciando quasi intatti gli interni, cancellando solo dalle pareti e dalle cupole le aborrite immagini umane, ma circondandola di quattro, altissimi «fari».
È proprio contro questo segno che sembra avere votato la Confederazione elvetica, con disappunto delle gerarchie cristiane. Questa sorta di compendio, di sintesi della storia e della cultura europea, piantata nel cuore del Continente, dove fa convivere le due grandi radici, la latinità e il germanesimo, ha detto no. No alla convivenza esplicita, avvertibile già a colpo d’occhio, della croce con la mezzaluna, del campanile con il minareto. Le bianche montagne, le verdi vallate, i laghi azzurri non hanno nulla a che fare con i deserti e le steppe da cui spuntarono i maomettani, tante volte contenuti a suon di spada (e le milizie elvetiche fecero la loro parte) e che ora muovono silenziosamente ma implacabilmente a una nuova conquista, varcando le frontiere spesso in modo abusivo.
La Svizzera non fa che confermare il «complesso dell’assedio» che sempre più va diffondendosi in Europa.
Qualcosa come l’allarme dei «barbari alle porte» che contrassegnò gli ultimi secoli dell’Impero romano.
Può esserci del positivo, malgrado le rampogne dei vescovi: innanzitutto, la riscoperta della nostra civiltà e cultura, abbandonando quell’«inspiegabile odio di sé che caratterizza da tempo l’Occidente», per usare le parole di Joseph Ratzinger quando ancora era cardinale e ricordava agli europei che nella loro storia le luci, malgrado tutto, prevalgono sulle ombre.
Ma c’è anche, in questo allarme, qualcosa di irragionevole: non è realistico, in effetti, pensare che, diluito tra noi, l’Islam resti se stesso. L’osservanza del Corano, non ci stanchiamo di ripeterlo, è già corrosa e sempre più lo sarà dai nostri vizi e dalle nostre virtù, dai nostri veleni e dalle nostre grandezze. Non occorrerà una nuova Lepanto: basterà la nostra quotidianità, nel bene e nel male, per togliere vigore a una fede arcaica, legalista, incapace di affrontare le sfide non solo dell’edonismo e del razionalismo ma anche, va detto, dei venti secoli di cristianesimo che hanno permeato l’Europa.»
b) È una lezione, la gente non ascolta i salotti ma la propria paura (di Paolo Del Debbio, Il Giornale, lunedì 30 novembre 2009).
«La Svizzera ha detto no alla costruzione dei minareti, quelle torri vicine alle moschee dalle quali i muezzin chiamano i fedeli islamici alla preghiera. Hanno detto un no deciso: il 57,5% degli svizzeri che hanno votato. Minareto viene da una parola araba che vuol dire “faro”: di questa luce gli svizzeri hanno deciso di fare a meno.
Quando iniziò questa storia del referendum sembrava una scampagnata di qualche esaltato, una ristretta minoranza di scalmanati che, a detta dei più, non sarebbe andata da nessuna parte. Invece da nessuna parte è andato tutto quell’establishment che era contro coloro che non volevano più minareti in Svizzera. L’establishment da una parte, gli svizzeri dall’altra.
Questa realtà non riguarda solo gli svizzeri. Se in Italia si facesse qualcosa del genere come andrebbe a finire? In alcune regioni del Nord, Lombardia e Veneto in testa, il risultato appare scontato, si andrebbe incontro a una evidente e schiacciante sconfitta. E nel resto d’Italia? Vedete, quando in Italia qualcuno interpreta gli umori del popolo viene immediatamente tacciato di populismo. Si dice che liscia il pelo alle peggiori pulsioni del popolo bue e che, così facendo, porta l’Italia verso il baratro. Lo fa diventare un Paese incivile dove lo stomaco prende il posto del cervello. Tante volte, poi, alle elezioni, il popolo ha scelto questi che vengono chiamati populisti perché in essi ha trovato chi dava voce a quello che pensa, che sente, che ritiene più giusto.
Oggi in Italia a proposito dell’immigrazione c’è tutta una corrente che ritiene di dover prendere le distanze da coloro che portano avanti una linea più intransigente. Ma in che consiste questa intransigenza? A parte qualche scalmanatura, intransigenza significa rispetto della legge e rispetto dovuto alle tradizioni culturali e religiose del nostro Paese. Venga pure chi vuol venire, ma non a fare ciò che vuole. Questo ragionamento, che non fa una grinza, non va di moda in quell’enorme salotto costituito da certa stampa, da certi politici e da certa intellighenzia che ha paura a dire la verità. Non volendo lisciare il pelo al popolo se lo lisciano tra di loro e sono contenti così. Liscia oggi, liscia domani, nel frattempo il popolo sente altro e va in un’altra direzione, esattamente come in Svizzera. Chi conta da una parte, chi non conta nulla, salvo alle elezioni e ai referendum, dall’altra. Non si tratta di lisciare il pelo al popolo nel verso in cui se lo vuole sentire lisciato. Si tratta di capire che il senso di insicurezza e di paura che il popolo sente nei confronti di un’immigrazione indistinta e confusa, non sono delle invenzioni, è la realtà. Ciò che c’è da fare non è disquisire su questa stolta paura dell’immigrato che albergherebbe nel popolo. Ciò che c’è da fare è toglierla la paura al popolo.
Nelle più antiche costituzioni una delle libertà fondamentali è la libertà dalla paura. Si tratta della Dichiarazione americana del 1776 che sotto non aveva la firma di Calderoli, ma di una serie di padri fondatori della democrazia più importante del mondo. La necessità di integrare gli immigrati è sacrosanta, ma ci vuole chiarezza, molta chiarezza. Altrimenti succede come in Svizzera.»
(Fonte: Fatti sentire.net, 30 novembre 2009)
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