Noi alla Rai vogliamo bene. Più per quanto è stata e potrebbe essere, che per quello che oggi effettivamente è. E di un servizio pubblico radiotelevisivo di alta qualità gli italiani hanno bisogno; ne ha bisogno la democrazia, il cui stato di salute è direttamente collegato a quello del suo sistema mediatico e, in particolar modo, radiotelevisivo. Per questo l’appello a non pagare il canone Rai propagandato da alcuni quotidiani – pur esprimendosi come ultima ratio da parte di inascoltati ed esasperati cittadini – non è la cosa immediata e risolutoria da affrontare.
Perché? Perché al di là della carica emotiva e dimostrativa, il non pagare il canone non risolverebbe nulla. Ammesso e non concesso che un Santoro & Co. venisse spazzato via, ne sorgerebbero altrettanti, come i funghi.
Perché il problema non è il pagare o no una tassa ritenuta iniqua: il vero problema è ritornare al rispetto, all’educazione, alla signorilità, all’eleganza che un servizio pubblico impone.
Oggi tutto questo non esiste più: le trasmissioni di una volta fanno ridere, sono muffa di soffitta, ridicolaggini insulse.
Oggi finalmente abbiamo la TV in tempo reale: la TV vissuta, onnipresente, veritiera!
Ma a che prezzo? Chi grida più forte, chi è più sboccato, chi esibisce a piene mani la spazzatura più maleodorante è il primo della classe, il paladino difensore dei diritti di libertà: perché oggi il termine “libertà” è stato affrancato da rispetto, educazione, e da ogni principio morale. Libertà quindi di massacrare, di distruggere, di insultare, di insozzare.
È un piacere sadico cui gli avvoltoi del video non potranno mai rinunciare.
È una corsa alla distruzione morale di una società: i giovani crescono con la convinzione che tutto è loro permesso: il bullismo più bieco, fatto di sopraffazione e violenza, diventa una metodologia, uno stile, un’arte mirata all’autoaffermazione sociale.
Allora spegnere i vari Santoro, Dandini, Lerner, Ballarò, Crozza, Luttazzi e compagnia urlante, non serve a nulla. Sarebbe ulteriore motivo di schiamazzi, di piazzate, di urla disumane da parte dei nuovi “martiri”.
Purtroppo tanta, troppa TV è oggi impegnata in un’opera sistematica di obnubilamento delle coscienze, al punto da rendere incapaci di distinguere il buono dal cattivo, il bello dal brutto, il giusto dall’ingiusto, l’utile dall’inutile, l’alta qualità dalla bassa qualità, dalla spazzatura.
Il vero pericolo è costituito, da sempre, da chi confeziona ad arte programmi sciacqua-cervello, reality insulsi, privi di qualunque buon senso, da qualunque principio morale; programmi che anestetizzano l’intelligenza abituandola alla mediocrità, riducendo gli spettatori a zombi lobotomizzati; da chi ci ripete che il vero intrattenimento non può essere intelligente, che la risata è spontanea e corale solo se si alimenta nel doppio senso, nella parolaccia, nell’insulto, nel cannibalismo dello stile.
Un pubblico di cittadini telespettatori cresciuto a questa scuola è la premessa all’eutanasia del senso critico e – dagli oggi, dagli domani – rischia di diventare un esercito sempre più renitente al cosciente esercizio delle libertà democratiche.
È su questo fronte che il servizio pubblico televisivo dovrebbe dimostrare un guizzo di orgoglio e di responsabilità. Dovrebbe rinunciare a quella che da anni denunciamo come la “pornografia dei sentimenti” di troppi programmi spazzatura; all’illogica dittatura dell’Auditel usato non come strumento a servizio del mercato pubblicitario, ma per determinare la sorte dei programmi, secondo l’assurda equivalenza “quantità uguale qualità”; ai compensi milionari di star di dubbio talento a fronte dell’incapacità di reperire fondi per una vera tv dei ragazzi e per i ragazzi, a partire dal loro diritto a un’informazione calibrata (e a misura).
Per non parlare delle continue violazioni del codice di autodisciplina, della pubblicità strillata a volume doppio, eccetera.
In una parola dovremmo essere noi, con il nostro telecomando, a stabilire ciò che merita o non merita di essere visto, ciò che concorre o non concorre a rendere un domani più vivibile, una società più serena, più rispettosa dell’altro. Allora automaticamente i programmi laidi, tendenziosi, virulenti, falsi e sboccati si escluderebbero da soli, non trovando a priori ossigeno e humus adatti ad un loro impensabile accoglimento.
Ecco, questa sarebbe la Rai per la quale penso che tutti pagherebbero volentieri una tassa. Questo sarebbe il servizio pubblico finalmente degno di una nazione civile come pretendiamo di essere noi italiani.
(Mario, 30 settembre 2009)
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