Si fa un gran parlare di avvicendamenti nella Curia romana e nell'Episcopato. Nil sub sole novi: da che mondo è mondo, i pettegolezzi su eventuali nomine sono uno degli sport preferiti del genere umano. Non c'è assolutamente da meravigliarsi. È dell'altro giorno la smentita delle anticipazioni riguardanti un'eventuale promozione di Mons. Malcom Ranjith alla sede arcivescovile di Colombo. Anche se non posso negare un naturale interesse per tutte queste voci che si rincorrono, per principio mi sono ripromesso di non dar credito a certe notizie finché esse non sono state ufficialmente pubblicate.
Ma in questa sede non è questa o quella (possibile) nomina che mi interessa. Vorrei fare qualche considerazione sulla "politica" che ispira certi avvicendamenti. Io non so quale sia la politica attualmente seguita dalla Santa Sede nella scelta dei responsabili dei dicasteri della Curia romana e delle sedi episcopali. Non so neppure se esista una tale politica o se piuttosto certe nomine non debbano essere considerate semplicemente frutto di "giochi di potere".
Certamente molti rimarranno rabbrividiti al solo sentir parlare di "giochi di potere" nella Chiesa. Vi dirò sinceramente: anche in questo caso la cosa non mi meraviglia piú di tanto. Sono convinto che una simile realtà, per quanto riprovevole, c'è sempre stata e — ahimè — sempre ci sarà nella Chiesa, come in qualsiasi altra istituzione umana.
Quel che invece mi preoccupa maggiormente è che ci possa essere una "politica" dettata dall'ideologia. Che cosa voglio dire? È un fatto che viviamo in una società fortemente ideologizzata. Non saprei dire quando la tendenza a considerare la realtà attraverso le lenti dell'ideologia abbia avuto inizio. Certamente si tratta di una tendenza abbastanza naturale, ma penso che essa abbia avuto una spinta notevole a partire dall'illuminismo (la prima grande ideologia moderna) per arrivare al XX secolo, che è stato il "secolo delle ideologie". A un certo punto, col crollo del comunismo (1989), ci eravamo illusi che le ideologie fossero finite, ma non era affatto vero: continuiamo a essere vittima di altre ideologie.
Probabilmente anche il Concilio Vaticano II va letto all'interno di questa generale ideologizzazione, che ha finito per insinuarsi anche nella Chiesa. Non solo nelle discussioni, ma negli stessi documenti conciliari si sente l'influsso delle ideologie allora in voga. Ma anche questo non deve scandalizzarci: la Chiesa vive nel tempo; ed è ingenuo pensare che essa possa rimanerne incontaminata. Ciò che importa è che la Chiesa, in questo suo cammino attraverso la storia, non è mai sola, ma è assistita dallo Spirito Santo, che le permette di discernere e ritenere ciò che è buono, lasciando cadere ciò che è male. Dunque, nessun dubbio che ciò che il Concilio ha deciso è ciò che Dio vuole dalla sua Chiesa in questo nostro tempo.
Eppure certe tendenze ideologiche sono rimaste presenti nella Chiesa. Che altro è, se non ideologia, il cosiddetto "spirito del Concilio", che non solo ha operato durante il Concilio, ma che ha continuato ad agire dopo di esso, pretendendo di essere l'unica sua chiave di lettura? Per anni il "progressismo" è stato visto come l'unico modo legittimo di vivere il cristianesimo. E tale progressismo ha ispirato non solo l'interpretazione del Concilio, ma anche la nomina dei Vescovi, dei responsabili della Curia romana, dei professori di teologia, ecc. Scelte "ideologiche", appunto.
Ma, da qualche anno a questa parte, è presente nella Chiesa una tendenza opposta. Dopo decenni di vita nelle catacombe, con il pontificato di Giovanni Paolo II prima e, soprattutto ora, col pontificato di Benedetto XVI, hanno ripreso forza i gruppi tradizionalisti, che hanno incominciato a far sentire la loro voce e a pretendere alcuni cambiamenti nella Chiesa. Ciò non deve meravigliare, perché, col passare degli anni le forze progressiste si sono a poco a poco esaurite: i giovani rivoluzionari degli anni Sessanta-Settanta nel frattempo sono invecchiati, senza avere ricambi; al contrario dei tradizionalisti che invece in questi anni hanno incrementato le loro fila con l'adesione di non pochi giovani.
È così che tali gruppi tradizionalisti spingono per un ricambio nei posti chiave della Chiesa (diocesi e Curia romana), un ricambio che preveda la sostituzione di uomini di tendenza progressista con persone che siano fedeli a una visione piú tradizionale. Già in altra occasione facevo notare che tale operazione non è per nulla facile: lo abbiamo visto recentemente in Austria col tentativo di nominare Mons. Wagner Vescovo ausiliare di Linz. Non è facile scalfire un sistema di potere cosí consolidato: è come fare un trapianto; segue l'immediato "rigetto" dell'organo che si vuole innestare. Lo stiamo vedendo anche nella Curia Romana, dove, nonostante che da quattro anni ci sia Benedetto XVI, le nomine in importanti dicasteri continuano a lasciare molto a desiderare.
Ma qui vorrei aggiungere qualche altra considerazione. Prima di tutto, non dobbiamo farci illusioni. Il tradizionalismo, di per sé, non è garanzia di qualità. Lo abbiamo visto in non poche nomine fatte durante il pontificato di Giovanni Paolo II, specialmente in alcuni paesi europei (Olanda, Svizzera, Austria). Quelle nomine non solo non sono riuscite a recuperare la situazione della Chiesa in quei paesi o anche solo a creare un nuovo clima all'interno dei rispettivi episcopati, ma in non pochi casi sono rimaste travolte da scandali di vario genere.
C'è poi da chiedersi: è questa auspicata "normalizzazione", alla fin fine, tanto diversa dalla "rivoluzione" avvenuta in seguito al Vaticano II? Non è anch'essa, dopo tutto, una tendenza ideologica? In entrambi i casi si giudicano le persone per le loro idee, se sono tradizionaliste o progressiste; e questo dovrebbe essere un criterio sufficiente per la loro nomina. Vi sembra giusto? Delle capacità, delle competenze, del valore di una persona importa poco; ciò che importa è se quella persona è un tradizionalista o un progressista. Ed è, a mio parere, proprio questo, che rovina la Chiesa; perché ci ritroviamo spesso persone non capaci in posti-chiave.
Che ciascuno di noi sia tendenzialmente portato verso la conservazione o il cambiamento, è cosa naturale. Ma non dovrebbe essere questo ciò che ci qualifica e che determina la nostra scelta per un determinato incarico. Quando c'è da provvedere a qualche ufficio l'unica preoccupazione dovrebbe essere la capacità e la competenza dei candidati. È ovvio che questo sistema ha senso solo all'interno di una condivisione dei valori di fondo. Voglio dire: a prescindere che io sia tradizionalista o progressista, non metterò in discussione la divinità di Cristo; al massimo potrò discutere se il rito della pace va fatto prima della comunione o all'offertorio.
Probabilmente, se incominciassimo a guardare di piú al valore delle persone e non alle loro idee, a quello che fanno piú che a quello che dicono, il livello dei "quadri" della Chiesa ne guadagnerebbe non poco.
(Fonte: “Senza peli sulla lingua”, 9 maggio 2009)
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